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Il calcio trasformato in derivato finanziario: l'illusione dei fondi di private equity

Ne scrivono Financial Times e Bloomberg, ma Imperatore lo aveva denunciato anni fa: prestiti sui trasferimenti e fondi come Apollo non rafforzano i club.


Vincenzo ImperatoreVincenzo ImperatoreAnalista finanziario e giornalista

09/09/2025 15:11 - Altre notizie
Il calcio trasformato in derivato finanziario: l'illusione dei fondi di private equity

Il calcio europeo sta vivendo una trasformazione che rischia di snaturarne l’essenza. Non parliamo più soltanto di passione, tifoserie e progetti sportivi, ma di finanza sofisticata che penetra in profondità nei club. I grandi fondi di private equity, come più volte sottolineato nel passato (anche su queste colonne), stanno allungando le mani su squadre e leghe, con strumenti che poco hanno a che vedere con lo sport.


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L'illusione dei fondi di private equity

Il Financial Times ha raccontato come Apollo Global Management, una grande società finanziaria con oltre 800 miliardi di dollari gestiti, abbia varato un fondo da 5 miliardi di dollari interamente dedicato allo sport, con l’obiettivo di prestare denaro alle società calcistiche e, in alcuni casi, acquisirne quote di controllo. Non si tratta di investimenti industriali o di progetti di radicamento territoriale, ma di operazioni studiate a tavolino per estrarre rendimento e poi uscire nel giro di pochi anni. Parallelamente Bloomberg ha mostrato un’altra faccia della stessa medaglia: il ricorso sempre più diffuso ai prestiti garantiti dalle rate future dei trasferimenti dei calciatori. Un vero e proprio finanziamento per anticipo crediti come se ne vedono tanti nel credito di impresa. Le squadre vendono un giocatore, incassano in più anni, ma per ottenere subito liquidità girano questi crediti a fondi e banche. Così il cartellino di un atleta diventa la garanzia di un debito, un asset cartolarizzabile come fosse un mutuo o una bolletta energetica. È il trionfo della finanza sullo sport: il calcio diventa un prodotto finanziario derivato, con i giocatori ridotti a “asset cartolarizzabili”. La priorità non è la crescita sportiva, ma l’ottimizzazione del rendimento dell’investitore.


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C’è poi un aspetto meno evidente ma altrettanto pericoloso: l’impatto di queste operazioni sull’indice di liquidità, uno dei parametri principali utilizzati dalla UEFA per autorizzare i club a operare sul mercato. Questo indice mette a confronto le attività disponibili – cioè la cassa, i valori prontamente realizzabili e i crediti a breve termine – con i debiti a breve. In pratica, serve a rispondere a una domanda semplice: “La società è in grado di coprire i debiti di gestione con i soldi disponibili e con l’incasso dei crediti entro l’anno successivo?”. Secondo i principi contabili internazionali, infatti, un credito a breve è solo quello che scade entro 12 mesi, mentre quelli oltre l’anno sono classificati come medio-lungo termine. 

Qui però entra in gioco l’artificio: cedendo crediti che scadono ben oltre i dodici mesi, ma facendoli apparire come attività disponibili, le società migliorano temporaneamente il numeratore dell’indice, mostrando un valore più solido di quello reale e ottenendo così il via libera per muoversi sul mercato. Il problema è che questi crediti sono stati anticipati a sconto: quando arriverà il momento degli incassi, le disponibilità effettive saranno inferiori. È un gioco di specchi che consente di guadagnare tempo, ma che lascia intatti i nodi strutturali.

Il rischio è evidente. Da un lato i fondi come Apollo, Oaktree o RedBird non hanno alcun interesse a costruire cicli sportivi di lungo periodo: il loro orizzonte è limitato, la logica è quella del buy and sell. Dall’altro i club entrano in un vortice di indebitamento che può rivelarsi letale: prestiti a tassi che arrivano all’8-9% in un settore volatile come il calcio, dove basta una retrocessione o una mancata qualificazione in Champions per azzerare ricavi attesi. Questo meccanismo alimenta una spirale inflattiva: l’anticipo di liquidità spinge a spendere ancora di più sul mercato, gonfiando i prezzi dei calciatori e rendendo i bilanci sempre più fragili. La bolla si autoalimenta e la distanza tra la logica finanziaria e quella sportiva si allarga.

C’è poi un problema di governance. I fondi impongono clausole, si assicurano controllo anche come investitori di minoranza, marginalizzano dirigenti e comunità locali. Il calcio diventa una voce di portafoglio globale, in mezzo a infrastrutture, real estate, energia. Non c’è spazio per la storia, la cultura, l’identità dei club. L’Atalanta dei Percassi, il Milan passato da Elliott a RedBird, l’Inter finita nelle mani di Oaktree: sono esempi che dovrebbero far riflettere. Nessuno di questi soggetti ha legami con la comunità, nessuno ha come priorità la continuità sportiva.

Il paradosso italiano è che proprio in un contesto di bilanci in rosso e stadi obsoleti, i fondi trovano terreno fertile. La Serie A diventa un campo di caccia ideale per capitali globali che vedono opportunità di rendimento dove le banche tradizionali non osano entrare. Ma ciò che appare una soluzione nell’immediato rischia di essere una trappola nel lungo periodo. Il calcio è un business troppo volatile per sopportare debiti strutturati su tassi così elevati, e soprattutto non è un business qualsiasi: è un patrimonio culturale e sociale.

Il Napoli rappresenta un modello alternativo

C’è però ancora un modello alternativo. Napoli, con Aurelio De Laurentiis, rappresenta un caso diverso: imperfetto, certo, ma basato su una logica industriale e non speculativa. Un imprenditore che opera nel tempo, con una visione legata alla sostenibilità, e che mantiene un legame con la città e i tifosi. In un sistema dove i fondi vogliono trasformare i club in prodotti finanziari derivati, il Napoli è la dimostrazione che un club può restare un’impresa, ma senza diventare un asset in un portafoglio globale.

Il calcio italiano deve scegliere. Continuare a farsi colonizzare da fondi che vedono nei giocatori solo strumenti di cartolarizzazione, oppure difendere la propria identità e ricostruire un modello basato su imprenditori solidi, radicati e lungimiranti. 

Se accettiamo che il calcio diventi un prodotto derivato, non ci sarà ritorno: i club saranno numeri da bilancio, i tifosi clienti da monetizzare, la passione un effetto collaterale. E quando i fondi avranno incassato il rendimento, se ne andranno lasciando macerie. 

La vera sfida è impedire che il pallone smetta di rotolare sui campi per finire definitivamente nelle stanze della finanza.


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Vincenzo ImperatoreVincenzo Imperatore
Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato 22 anni come manager di un istituto di credito. Dal 2012 è un libero professionista, saggista, scrittore e giornalista pubblicista. Collabora con importanti testate.

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