Italia, qualcuno deve dirlo: ci stanno raccontando una grossa bugia
L'Italia è stata demolita dall'impeto degli attacchi della Nazionale norvegese, ma guardando a un aspetto generale del calcio italiano, ci stanno raccontando una grossa bugia.

Abbiamo assistito all'ennesima pagina amara della recente storia della Nazionale italiana, una storia che negli ultimi anni sembra aver smarrito identità, fiducia e soprattutto qualità. E pensare che fino al Mondiale del 2006 - e forse anche per qualche stagione successiva - l'Italia era una potenza calcistica, un serbatoio naturale di talenti e personalità in grado di imporsi ovunque.
Oggi, invece, la fotografia impietosa arriva dalla Norvegia: una squadra che, senza proclami, ha costruito un progetto serio, fondato sul lavoro e sulla valorizzazione dei giovani. Quando i norvegesi hanno deciso di giocare davvero, gli Azzurri sono semplicemente crollati sotto l'impeto delle loro iniziative. Un epilogo che evidenzia ancora una volta una cecità generale: si continua a ignorare il problema alla radice e ci si limita a tamponare i sintomi.
Il calcio, da sempre, è lo specchio del Paese. Se l'Italia vive di ritardi infrastrutturali, di lentezza nelle riforme e di miopie progettuali, è inevitabile che la Nazionale rifletta le stesse contraddizioni. Anche nel nostro movimento calcistico esiste un dogma che nessuno vuole mettere realmente in discussione: l'idea, martellata da anni, che in Italia manchino i talenti. Una bugia colossale, utile forse a giustificare responsabilità tecniche e strutturali.
La verità è un'altra: il talento in Italia esiste, ma spesso viene soffocato. Viene irrigidito, limitato, quasi neutralizzato da un'ossessione esasperata per la tattica, che finisce per criptare la creatività dei giovani e stremarli con allenamenti che guardano più alla disposizione in campo che al gesto tecnico. Mentre all'estero - e non solo nelle grandi nazioni - accade esattamente il contrario.
Il giornalista georgiano Kakha Dgebuadze, in un'intervista ad AreaNapoli.it, spiegava come in Georgia si alleni quasi esclusivamente la tecnica ed è così che nascono i Kvaratskhelia, i Mikautadze, i Davitashvili: giocatori liberi, spontanei, imprevedibili. E qualcosa torna alla mente anche ascoltando Noa Lang: il CT Koeman ha rivelato che l'olandese gli avrebbe confidato di "non aver toccato il pallone per 28 giorni durante il ritiro con il Napoli". Se davvero così fosse, sarebbe naturale che un calciatore tecnico perda automatismi, brillantezza, capacità di saltare l'uomo.
La preparazione atletica e la cura maniacale dell’organizzazione - come nel metodo di Conte, ma non solo - hanno certamente portato risultati. Tuttavia, non possono diventare l'unico pilastro: senza tecnica, il calcio italiano continuerà a produrre giocatori solidi ma poco incisivi, diligenti ma raramente decisivi.
Il vero nodo è un altro: la formazione dei giovani. Dalle giovanili alla Primavera, l'enfasi è quasi esclusivamente tattica, mentre la tecnica – quella che permette di creare, rischiare, inventare - viene relegata a ruolo marginale. Paradossalmente, nelle scuole calcio si lascia più libertà ai bambini che non ai ragazzi di 15-17 anni, proprio quando la creatività dovrebbe essere preservata, non incatenata.
Forse sarebbe il caso di ripensare tutto: allenare la tattica solo nel momento del passaggio alla prima squadra, lasciando che il settore giovanile diventi una fucina autentica di tecnica, qualità e fantasia. Perché finché continueremo a raccontarci che "i talenti non ci sono", continueremo semplicemente a nasconderci dietro la più grande bugia del nostro calcio.
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