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Uno spettro si aggira nel mondo del calcio: la sentenza Diarra. Anche Ribeiro ne approfitta

Un'analisi completa di un fenomeno che, oltre a ribaltare i rapporti di forza tra club e calciatori, rischia di avere un impatto profondo anche sui bilanci delle società di calcio.


Vincenzo ImperatoreVincenzo ImperatoreAnalista finanziario e giornalista

03/10/2025 16:02 - Altre notizie
Uno spettro si aggira nel mondo del calcio: la sentenza Diarra. Anche Ribeiro ne approfitta

Uno spettro si aggira nel mondo del pallone. Non è quello del comunismo evocato da Karl Marx nel Manifesto del 1848, ma quello della sentenza Diarra, una decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea che rischia di riscrivere le regole del gioco fuori dal campo. Le società fanno finta di nulla, i dirigenti minimizzano, molti osservatori sottovalutano. Ma i calciatori hanno già colto la portata dirompente della decisione. E qualcuno, come Lucas Ribeiro, ha già deciso di sfruttarla per liberarsi da un contratto in un lampo, dalla sera alla mattina.


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La "sentenza Diarra", pericolo per i club

La vicenda nasce da lontano, nel 2014, quando Lassana Diarra, centrocampista francese con un passato in Real Madrid, Chelsea e nazionale, rompe unilateralmente il contratto con il Lokomotiv Mosca. Il club aveva ridotto drasticamente lo stipendio e non rispettava gli accordi, ma per la FIFA questo non era sufficiente: in base alle proprie regole, in particolare all’articolo 17 del Regolamento sullo status e i trasferimenti dei calciatori (RSTP), il giocatore che rescinde senza giusta causa è tenuto a pagare un indennizzo e rischia sanzioni sportive. Per Diarra arrivano infatti una multa e la sospensione, la conferma che il potere stava tutto dalla parte delle società.


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Il calciatore però decide di andare fino in fondo e porta la questione davanti alla giustizia ordinaria, fino a giungere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Qui la partita cambia. La Corte riconosce che l’articolo 17, così come applicato, limita in modo sproporzionato la libera circolazione dei lavoratori, un principio cardine dell’Unione. Bloccare un trasferimento significava, fino alla sentenza Diarra, usare come arma il cosiddetto Certificato Internazionale di Trasferimento (International Transfer Certificate, ITC). Si tratta di un documento indispensabile per il tesseramento di un calciatore che si sposta da una federazione all’altra: senza questo certificato, emesso dalla federazione del paese di provenienza e trasmesso a quella di destinazione, il giocatore non può essere registrato e quindi non può scendere in campo. In passato, se c’era una controversia tra il calciatore e il suo vecchio club, la FIFA o la federazione di partenza potevano trattenere il certificato e bloccare di fatto il trasferimento, impedendo al giocatore di lavorare. La Corte di Giustizia ha stabilito che questa pratica è contraria al diritto europeo, perché priva il lavoratore della libertà di cambiare datore di lavoro.

Accanto a questo c’è il tema delle compensazioni. Secondo l’articolo 17 del regolamento FIFA, se un giocatore rescindeva un contratto senza giusta causa, era tenuto a pagare un risarcimento al vecchio club. In teoria, serviva a tutelare le società contro fughe improvvise. In pratica, però, queste cifre erano spesso calcolate in maniera arbitraria, senza criteri chiari e trasparenti, e finivano per essere molto elevate. Il risultato era che un giocatore rimaneva prigioniero del proprio contratto: rescindere significava esporsi a richieste economiche spropositate, tali da scoraggiare qualsiasi tentativo di cambiare squadra.

La Corte ha contestato questo impianto, sottolineando che un calciatore deve poter scegliere liberamente il proprio futuro senza essere frenato da richieste economiche ingiustificate. Oggi, trascorso il cosiddetto “periodo protetto” fissato dall’art. 17—tre stagioni/tre anni per chi ha firmato prima dei 28 anni, due stagioni/due anni per chi ha 28 anni o più—il calciatore può sciogliere unilateralmente il contratto senza sanzioni sportive. Resta dovuto un indennizzo al club, ma non è un “prezzo di cartellino”: nella prassi, soprattutto dopo il caso del calciatore scozzese Andy Webster (dagli Heart of Midlothian al Wigan Athletic per un tozzo di pane), la somma è stata spesso commisurata al salario residuo (con eventuali correttivi) e quindi molto più bassa dei valori di mercato; e, dopo Diarra, la FIFA ha dovuto chiarire che l’indennizzo va calcolato con criteri oggettivi per rimettere la parte lesa nella posizione in cui si sarebbe trovata se il contratto fosse stato rispettato, senza bloccare il certificato internazionale di trasferimento né presumere automaticamente colpe del nuovo club. In termini pratici, dopo tre anni un giocatore può davvero “liberarsi con un tozzo di pane” rispetto ai vecchi standard del calciomercato, perché il costo ricade su un risarcimento limitato e verificabile, non su una cifra arbitraria fissata dal venditore

Il verdetto del 4 ottobre 2024 è un terremoto. La Corte non abolisce il sistema FIFA, ma lo svuota dei suoi cardini, costringendo le istituzioni del calcio a un ripensamento profondo. L’eco della sentenza richiama inevitabilmente quella Bosman del 1995, che trent’anni fa aprì all’era dei parametri zero e cambiò il mercato per sempre. Anche stavolta, l’Europa giuridica mette in crisi l’ordine calcistico mondiale.

Le reazioni dei club sono state tiepide, quasi distratte. Dirigenti e presidenti hanno minimizzato, convinti che la FIFA potesse correggere qualche dettaglio e riprendere il controllo. Ma intanto, dall’altra parte, i giocatori e i loro agenti hanno iniziato a studiare. La sentenza Diarra è diventata un’arma legale pronta a essere impugnata. E non è rimasta lettera morta.

Anche Lucas Riberio ne approfitta

Il primo a muoversi è stato Lucas Ribeiro. Sotto contratto con il Mamelodi Sundowns FC in Sud Africa  fino al 2028, il calciatore ha deciso di sfruttare i principi affermati dalla Corte e ha comunicato la rescissione senza esitazioni per approdare al club spagnolo Cultural y Deportiva Leonesa, squadra della seconda divisione spagnola. Un gesto che fino a pochi mesi prima sarebbe stato impensabile: il club avrebbe bloccato il trasferimento, la FIFA avrebbe inflitto sanzioni e la carriera del giocatore sarebbe rimasta sospesa. Invece Ribeiro si è appellato al nuovo quadro legale e ha ribaltato i rapporti di forza, dichiarando in sostanza che non era più accettabile restare vincolato da una norma giudicata contraria al diritto europeo. Nel frattempo, ironia della sorte, Lassana Diarra non giocava più da tempo. La sua carriera era già chiusa, ma il suo nome è rimasto come quello dell’uomo che, con una battaglia legale, ha cambiato le regole per chi è venuto dopo.

La Fifa dovrà rivedere i propri regolamenti

Da qui in avanti lo scenario si fa incerto. La FIFA dovrà rivedere i propri regolamenti, perché l’articolo 17 non potrà restare com’era. I calciatori hanno ora una leva in più, che può trasformare i rapporti di forza nei contratti e nei trasferimenti. Molti potrebbero rivendicare risarcimenti per i danni subiti in passato, aprendo un contenzioso che rischia di coinvolgere migliaia di casi. E i club temono un effetto domino: la perdita di controllo, la possibilità che i calciatori scelgano di andarsene con più facilità, la fine della stabilità contrattuale su cui hanno sempre fondato i bilanci.

Lo spettro evocato all’inizio non è più un’ombra passeggera. Si aggira già nei corridoi dei club, nelle strategie degli avvocati, nelle scelte dei calciatori. La sentenza Diarra è destinata a cambiare gli equilibri del calcio globale. E se oggi i dirigenti fingono di non vederlo, domani dovranno fare i conti con una realtà nuova: un calcio in cui non sono più soltanto i club a fare legge, ma anche i giocatori. In futuro, il tavolo delle trattative dovrà necessariamente includere i calciatori, che non potranno più essere destinatari passivi di norme imposte dall’alto.

Le società temono il caos

Le società temono che il sistema finisca nel caos, ma molti osservatori ribattono che il vero caos era già presente: quello di regole opache, di compensazioni arbitrarie, di carriere congelate per anni da contenziosi burocratici.

Il dibattito è aperto. Da un lato ci sono i club che chiedono certezze per programmare investimenti e bilanci. Dall’altro i giocatori, che rivendicano la possibilità di decidere del proprio destino come qualsiasi altro lavoratore europeo. In mezzo c’è la FIFA, che dovrà inventarsi un nuovo equilibrio per non essere scavalcata da una giurisprudenza che rischia di togliere legittimità al suo intero sistema. 

È uno scenario che non si risolverà in pochi mesi, ma che ha già cambiato la percezione dei rapporti di forza.


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Vincenzo ImperatoreVincenzo Imperatore
Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato 22 anni come manager di un istituto di credito. Dal 2012 è un libero professionista, saggista, scrittore e giornalista pubblicista. Collabora con importanti testate.

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