Napoli e Juve, il bello e il brutto del calcio italiano. Due mondi opposti
Angelo Forgione per AreaNapoli.it analizza come è cambiato il calcio italiano. La Juventus è crollata, il Napoli si sta consacrando.

Da una parte la superiorità solare del bel Napoli sul campo. Dall’altra lo sfacelo della Juventus nelle segrete stanze della Continassa. È questa la proiezione binaria del calcio italiano all’estero, prima lustrato dalle prove di forza dei Partenopei nella campagna d’Europa e dalla loro marcia prepotente in Italia, e poi nuovamente infangato dall’ennesima tempesta che ha travolto i Bianconeri. Due club che rappresentano mondi opposti da sempre, per diversi motivi, e che oggi ribaltano i significati della stereotipata narrazione antropologica del Paese: programmazione settentrionale e improvvisazione meridionale; cultura piemontese del lavoro e arte di arrangiarsi napoletana. E no! Chi ha programmato e lavorato, dopo la batosta pandemica, è stato il Napoli, mentre la Juventus ha scelto la strada senza uscita degli espedienti, non per sopravvivere bensì per restare ai vertici nonostante la già aperta voragine dei conti, un po’ attaccandosi alla mammella di mamma Exor e un po’ ricorrendo alla finanza creativa. Dopo la retrocessione d’ufficio in Serie B e la cancellazione degli ultimi scudetti di Moggi e Giraudo, enorme era stata la voglia di Andrea Agnelli di vendicarsi funestamente sui club rivali e sulla Federazione per quanto inferto al club del cuore e agli uomini di papà Umberto. Vendetta compiuta conquistando scudetti in serie record, ma all’insegna dell’arroganza e della spocchia sabauda, chiedendo invano risarcimenti milionari e restituzione di tricolori sottratti, pure ostentandoli numericamente nel poco ospitale “salotto” di casa. L’ideale vanaglorioso del giovane Agnelli, bramoso del primato internazionale passando per la Champions League e poi per il Mondiale per club, ha condotto il club al silenzioso e lento suicidio, compiuto con un veleno di nome CR7, capace di disastrarne le finanze. Meglio la classe di Cristiano Ronaldo che la competenza di Beppe Marotta, sostituito con lo sciagurato Paratici. Fallita miseramente l’assalto alla Champions League, Andrea Agnelli non ha voluto arrendersi alla necessità di usare l’antidoto al veleno, quindi all’esigenza di liberarsi di Ronaldo, e ha lasciato piuttosto che crescesse il monte ingaggi, da 220 milioni della stagione 2018/19 ai 283 della 2019/20, l’ultima scudettata ma ancora fallimentare in Europa, come pure la successiva, funestata dalle restrizioni per fronteggiare la pandemia. Perdite sempre maggiori, da far pagare a mamma Exor e soci, pronti a mettere due volte mano alla tasca e tirare fuori fino a 700 milioni, sponsor Jeep escluso, mentre Andrea e i suoi facevano ricorso massiccio alle plusvalenze fittizie. Neanche dopo lo tsunami del Covid, il rampollo Agnelli ha voluto arrendersi alla necessità di ridimensionare il club, e così ha determinato il crollo, in campo e fuori.
Aurelio De Laurentiis, invece, ha fatto tesoro dell’errore commesso dopo lo scudetto annusato nel 2018. Per riprovarci dopo l’epocale beffa con annesse polemiche arbitrali, più per schiaffeggiare Sarri che per rincorrere la Juventus, aveva scelto di ingaggiare Ancelotti, rilanciando e dando una spinta agli ingaggi, ma i risultati non avevano prodotto che una Coppa Italia con Gattuso, chiamato a raddrizzare gli esiti dello storico ammutinamento. Uscito dalla criticità della pandemia, il patron azzurro, senza alcuna holding alle spalle, ha capito che, in un calcio sempre più disastrato, era necessario fare marcia indietro e ridurre abbondantemente il monte ingaggi. Farlo senza rinunciare alla possibilità di competere ad alti livelli e di accedere ai fondamentali introiti della Champions League, dopo due anni di assenza dalla massima competizione europea, non poteva passare per l’improvvisazione, bensì per un progetto di ringiovanimento della rosa attraverso un’attività fruttifera di scouting e per l’applicazione di una proposta di gioco che rinvigorisse l’identità di squadra sempre ricercata. Progetto chiaro, e attuatori individuati in Cristiano Giuntoli, l’uomo del mercato già in casa, e in Luciano Spalletti, convinto a far da timoniere per la nuova rotta del Napoli. Il nuovo mister ha potuto operare immediatamente; il “vecchio” direttore sportivo no. Niente mercato, né in uscita né in entrata. I senatori della rosa, messi subito in vendita, avrebbero dovuto salutare il club e i tifosi già nell’estate del 2021, ma restarono in Azzurro ancora un’altra stagione per assenza di offerte accettabili.
Spalletti ha avviato la transizione con la rosa ereditata da Gattuso. Rimandato all’anno successivo mezzo progetto, ma non l’obiettivo: tassativo il ritorno sul palcoscenico della Champions, dopo due anni di assenza, per ridare ossigeno alle finanze sociali. Missione compiuta, lasciandosi alle spalle anche un bel po’ di rammarico per il sogno di un tricolore solo accarezzato. Poco male per il patron; con la rosa rivalutata, i senatori potevano essere salutati per cifre congrue. Ecco finalmente il momento di Giuntoli, già bravo in corsa a portare a casa uno sconosciuto georgiano per sostituire il totem Insigne. Un’estate infuocata: la piazza a contestare, addolorata per gli addii illustri, e la stampa a criticare, sconcertata per l’indecifrabile rotta, mentre la dirigenza azzurra proseguiva spedita lungo la strada tracciata già un anno prima. Non c’era da farsi condizionare dai cattivi umori attorno e dagli avvelenatori di pozzi di turno ma solo da ringiovanire la rosa e completarla come Aurelio aveva comandato.
Pronti, via! E il Napoli ha scaricato sul campo tutti i cavalli del motore che nessuno immaginava fossero così tanti, tali da fare il vuoto al giro di boa del campionato, il più ampio della storia dei campionati di Serie A a venti squadre. A spadroneggiare sul campionato si è messo un manipolo di ragazzi ben affiatati in uno spogliatoio filtrato dalle scorie del passato. Dietro, a quindici punti, la Juventus, massacrata sul campo alla vigilia di una penalizzazione di altrettanti punti per illecito sportivo che l’ha spinta nella seconda metà della classifica. Il vecchio Aurelio che avanza, il giovane Andrea che sprofonda.
68,5 milioni il monte ingaggi del Napoli contro i 158 della Juventus, senza considerare i 126 dell’Inter e i 90 della Roma. Il progetto aureliano sta dando i frutti sperati, anche in anticipo rispetto alla visione lungimirante del presidentissimo. Il Napoli pronto a vincere immeditamente il campionato, e vuole farlo; non gli bastano più i pur fondamentali piazzamenti in Champions e le Coppe Italia, l’ultima delle quali, ironia della sorte, a chiudere il lunghissimo ciclo di vittorie della Juventus di Andrea Agnelli, e proprio con un rigore di Milik, finito in bianconero per risolvere alla meglio i problemi offensivi, mentre il Napoli si coccola il suo implacabile Osimhen e il suo fenomenale Kvara.
Era nei proclami di De Laurentiis la volontà di provarci per il tricolore, e chissà quanti gli diedero credito quando, a fine maggio passato, promise di fare di tutto per portare lo scudetto a Napoli, chiedendo ai giornalisti presenti, ma anche ai tifosi, di restare uniti con la squadra. Sapeva quello che Giuntoli avrebbe dovuto fare già l’anno prima, e che di lì a poco avrebbe fatto; sapeva che le cessioni importanti in blocco sarebbero state difficilmente digeribili dalla piazza. Le sue raccomandazioni non sarebbero servite, e del resto sarebbe stato difficile credere di voler portare lo scudetto a Napoli cedendo gli uomini che avevano fatto la storia recente del club per sostituirli con un georgiano, un coreano e qualche altro giovanotto di belle speranze.
Aurelio ha le idee chiare dalla primavera 2021, e con i suoi uomini sta piantando i presupposti per aprire un ciclo, allungando i contratti dei calciatori che stanno stupendo l’Europa fino al 2027/28. Qualcuno andrà via, perché quando bussa la Premiere League, la Serie A deve aprire la porta, ma il Napoli, che sa come risolvere, prepara un buon futuro, mentre la Juventus, incerta di ciò che verrà, si domanda cosa ne sarà di se stessa.
I due club si sono affrontati sul campo prima che i Bianconeri piombassero in un nuovo incubo. Otto vittorie consecutive, con altrettanti clean-sheet, per la squadra torinese e la possibilità di accorciare a meno quattro dagli Azzurri. Risultato: 5-1 per i Partenopei, frutto di un’epocale lezione di calcio impartita da Spalletti ad Allegri, entrambi da un anno e mezzo sulle rispettive panchine, ma il livornese da rientrante, perché Andrea Agnelli ha provato a risolvere i problemi finanziari della Juventus con gli artifici di bilancio, e allora ha creduto che bastasse ritornare al passato e richiamare l’allenatore degli scudetti in serie perché una squadra indebolita tornasse ad essere competitivo sul campo. Quegli scudetti li aveva vinti la squadra più forte sulla carta, valore che non appartiene più al club bianconero. È esattamente in questo passaggio che si comprende l’empasse gestionale della Juventus, incapace di programmare una svolta autentica e costretta a sperare di rigenerare il suo non rigenerabile passato. La Juve post-Covid ha fatto errori in serie, e ha provato ad arrangiarsi richiamando l’allenatore delle vittorie, riprendendo l’usurato Pogba, “affittando” Di Maria e sacrificando Dybala per Vlahovic, invece di liberarsi per tempo di Ronaldo. Andrea Agnelli ha sperperato risorse su risorse, e ha provato a risolvere aggirando le regole, pur di assecondare la sua boria e la voglia di continuare a vincere. I nodi della sua scellerata gestione sono venuti al pettine quando Covisoc prima e Consob poi sono piombate sulle strane operazioni e sui bilanci del club, quotato in Borsa, aprendo a John Elkann l’opportunità di riprenderselo dalle mani bucate del cugino, incapace di imparare dal passato la lezione delle intercettazioni.
La confusione della Juventus e la programmazione del Napoli sono le due facce del calcio italiano post-Covid, la cui credibilità, oggi, sta a Sud, in quel club meridionale che sceglie talenti veri e li mette in condizione di rendere immediatamente, che semina lo spettacolo del football sui campi d’Europa, che ambisce alla vittoria senza esserne ossessionato, che domina senza compromettere il futuro e tenendo i conti in ordine. Di contro, l’immagine pessima della Serie A nel mondo la dà di nuovo una grande del Nord, il club più titolato d’Italia, tornato a vincere dopo le vergogne del farmaci e di calciopoli, convinto di poter vivacchiare sugli allori di una voluta dimostrazione di superiorità ma ritrovandosi ancora una volta nelle aule di tribunale per salvare il salvabile.
La Juventus ha fallito la sua redenzione, condannandosi a una reputazione ancor più pessima. E mentre il mondo bianconero minaccia una nuova futura vendetta, il Napoli culla la consacrazione di un vero progetto, l’unico sostenibile in una Serie A alla canna del gas. Napoli e Juventus, il bello e il brutto del calcio italiano, oggi anche espressioni di un’Italia capovolta nelle sue incrollabili certezze. Un pallone, a ben vedere, le ha frantumate.





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