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Il dibattito sul Napoli: quando il linguaggio alimenta la violenza. Troppi "urlatori" in tv

Nei salotti televisivi e sui social network si usa sempre più spesso un linguaggio troppo forte e volgare. Bisognerebbe trovare un giusto equilibrio sia nei toni che nei modi relativi al dibattito.


Vincenzo ImperatoreVincenzo ImperatoreAnalista finanziario e giornalista

18/12/2024 17:07 - Altre notizie
Il dibattito sul Napoli: quando il linguaggio alimenta la violenza. Troppi urlatori in tv

Viviamo in un’epoca in cui il linguaggio violento, offensivo e irrispettoso è diventato tristemente normale, soprattutto nei dibattiti pubblici e sui social network. Questo fenomeno si amplifica nei contesti in cui le passioni si accendono, come nel calcio, dove anche figure pubbliche come giornalisti, scrittori e influencer spesso adottano toni aggressivi per esprimere le proprie opinioni o screditare chi non condivide le loro idee. 


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Basta osservare alcuni commenti post partita del Napoli a Udine da parte di molti autorevoli commentatori che, con il loro potere mediatico, amplificano i messaggi violenti e li normalizzano, rendendo accettabile ciò che non dovrebbe mai esserlo. Il loro ruolo dovrebbe essere quello di moderare il dibattito e favorire un confronto civile, ma troppo spesso si lasciano trascinare in toni aggressivi che umiliano e colpiscono chiunque non si allinei al loro pensiero. La gravità sta nel fatto che queste persone, per il loro ruolo e per la visibilità di cui godono, diventano modelli per molti, influenzando negativamente il modo in cui il pubblico affronta il dissenso.


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Ho letto epiteti volgari e ascoltato frasi ingiuriose urlate da rappresentanti dell’informazione, rivolte semplicemente a chi aveva liberamente espresso un parere negativo sulla prestazione del Napoli dopo il primo tempo. Abbiamo già parlato su queste colonne degli estremismi valutativi che tendono a polarizzare le discussioni sull’allenatore del Napoli (di cui sono un tifoso prima ancora che diventasse il nostro trainer – cfr. un mio articolo per Il Fatto Quotidiano del 26 agosto 2020) in una narrazione estrema: se sei bravo, non puoi sbagliare; se sei scarso, non puoi fare nulla di buono

Ma oggi bisogna soffermarsi su un altro aspetto: cosa accade quando queste parole non si limitano a ferire? Cosa succede quando si trasformano nel carburante per una violenza che abbandona il piano verbale per manifestarsi fisicamente?

Il ricorso a un linguaggio volgare e violento spesso non è accompagnato dalla consapevolezza delle sue conseguenze. Insulti, derisioni e attacchi personali, soprattutto se portati avanti pubblicamente, creano un clima di tensione che può avere effetti devastanti.

E qui mi chiedo: cosa farei se fossi io il bersaglio di un’offesa pubblica, pronunciata con cattiveria e arroganza da qualcuno che ha un’enorme visibilità? Certamente, mi rivolgerei alle vie legali per difendere la mia dignità. Ma posso davvero affermare che mi fermerei lì? Probabilmente no. Se mi trovassi faccia a faccia con chi mi ha offeso, forse non esiterei ad affrontarlo fisicamente. Non perché creda che la violenza sia una soluzione, ma perché è difficile restare impassibili di fronte a un’umiliazione pubblica reiterata.

Questa, sia chiaro, non è un’incitazione alla violenza, ma un’analisi socio-antropologica di ciò che percepisco intorno a me, nelle strade, nelle conversazioni della gente comune. La violenza verbale, specie quando perpetrata da chi ha potere e visibilità, genera frustrazione e rabbia, soprattutto in chi non ha i mezzi culturali o sociali per difendersi. Questo crea una spirale pericolosa, dove le parole preparano il terreno per azioni fisiche che sfuggono al controllo.

Il paradosso è che proprio queste figure pubbliche, dopo aver utilizzato un linguaggio denigratorio, si trasformano nei primi moralizzatori quando la violenza fisica esplode. Condannano gesti estremi senza mai interrogarsi sulle cause e sul loro ruolo nell’aver alimentato un clima di odio e intolleranza. È un comportamento ipocrita, che ignora il fatto che le parole possono ferire tanto quanto i pugni e che il loro uso irresponsabile ha conseguenze.

Le parole hanno un peso, e chi ha il potere di comunicarle a un vasto pubblico ha anche il dovere di usarle con responsabilità. Se giornalisti, scrittori e influencer decidono di ricorrere alla violenza verbale per imporre le loro idee o ridicolizzare chi non è d’accordo, non solo falliscono nel loro ruolo, ma diventano parte del problema.

Per cambiare questa realtà, è fondamentale che le figure pubbliche riconoscano la loro responsabilità. Di fronte a tutto questo, l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe intervenire, richiamando chi non rispetta i principi deontologici e garantendo che il linguaggio utilizzato nei media sia adeguato, rispettoso e mai lesivo della dignità altrui. Criticare o esprimere un’opinione non deve mai trasformarsi in un atto di prevaricazione o umiliazione. Solo così si potrà spezzare la spirale di odio che oggi permea sia il dibattito pubblico che le reazioni individuali sul calcio che, come ha detto Arrigo Sacchi, è pur sempre la cosa più importante delle cose meno importanti.

In conclusione, quando chi dovrebbe dare l’esempio ricorre a toni aggressivi, la violenza diventa alibi per chi è abituato ad utilizzarla come strumento di difesa. E finché non ci sarà consapevolezza del potere distruttivo delle parole, continueremo a vedere una società in cui la violenza verbale alimenta quella fisica, mentre chi ha contribuito a crearla si limita a condannarne gli effetti.


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Vincenzo ImperatoreVincenzo Imperatore
Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato 22 anni come manager di un istituto di credito. Dal 2012 è un libero professionista, saggista, scrittore e giornalista pubblicista. Collabora con importanti testate.

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