Spalletti non è mio concittadino: il libro che Napoli dovrebbe ignorare
Luciano Spalletti ha presentato il suo libro "Il paradiso esiste... ma quanta fatica". Tempismo e rivelazioni che lasciano perplessi per quanto riguarda il mondo Napoli.

C’è una regola non scritta, ma sacrosanta, che vale per chiunque abbia avuto il privilegio di vestire i colori del Napoli: portare rispetto. Non parliamo di gratitudine, perché non ci aspettiamo riconoscenza eterna. Ma rispetto sì. E invece, ancora una volta, Luciano Spalletti ha scelto la via peggiore: quella del narcisismo travestito da profondità, dell’egocentrismo travestito da riflessione.
Ha fatto uscire un libro – guarda caso – proprio a ridosso delle ultime giornate di campionato, con dichiarazioni capaci di aprire polemiche e ferite. Di nuovo. Come se Napoli fosse solo un passaggio di carriera, da usare per costruirsi una statura da personaggio, più che da uomo di sport. La cosa più offensiva non è ciò che ha detto, ma il tempismo. In un momento in cui il Napoli è pienamente in corsa per lo scudetto, quando la squadra combatte partita dopo partita e la città trattiene il fiato a ogni risultato, Spalletti decide di rimettere se stesso al centro della scena, come se la lotta per il titolo fosse un sottofondo utile alla promozione del proprio ego.
Un libro, uscito proprio ora, con dichiarazioni divisive, non è mai solo un libro: è un messaggio.
Ed è un messaggio sbagliato. Perché a Napoli, mentre si sogna, non si destabilizza. Si tifa, si tace, si spinge.
Chi ama davvero questa città, non le ruba il palco nel momento più delicato.
E qui ci vuole chiarezza: Spalletti non è napoletano. Non lo è mai stato. E non lo sarà mai.
Napoli non si eredita per delega istituzionale, come ha improvvidamente fatto un sindaco ormai specializzato in dichiarazioni decorative. Napoli la si abita con l’anima, o non la si abita affatto.
Chi ci vive davvero sa che questa città non ha bisogno di filosofi della fuffa per giustificare le proprie scelte. Ha bisogno di gente seria, coerente, capace di parlare poco e dimostrare molto.
La narrazione spallettiana è quella tipica di chi si autocelebra mentre tenta di relativizzare ogni colpa. È la stessa linea di chi dice: “Non mi avete capito, ma avevo ragione io”. Ma chi ha davvero ragione non ha bisogno di scriverselo da solo. E chi ha lasciato Napoli all’apice dovrebbe solo tacere e lasciare parlare il campo (ha vinto solo a Napoli e la sua Italia finora ha accumulato solo brutte figure), non il proprio ego.
Non c’è nulla di male nell’andarsene.
Il problema è come ci si congeda.
E Spalletti ha scelto di andarsene da primo della classe, con la mano alzata, il dito puntato e la scusa dell’anno sabbatico — che poi non c’è mai stato. Con la presunzione di chi crede che Napoli gli debba qualcosa, quando invece gli ha dato tutto. Un successo (non aveva mai vinto nulla in Italia), una visibilità (che sta smarrendo con la sua Italia che non centra un obiettivo), una cittadinanza onoraria (ahinoi). E anche il perdono. Ma tutto ha un limite.
Il suo libro non lo leggerò. Non per dispetto, ma per decenza.
Perché nella gerarchia dell’identità, tra chi ha amato Napoli per davvero e chi l’ha solo usata come tappa del proprio racconto personale, la differenza si vede nel momento in cui scegli se tacere per amore o parlare per compiacerti.
Spalletti ha scelto la seconda.
Noi, napoletani veri, scegliamo la prima: non dimenticare
E soprattutto, non regalare un solo euro a chi ha scelto di raccontarsi sopra i nostri sentimenti. Lasciamo il libro sugli scaffali: Napoli non si compra, e nemmeno si vende in libreria.





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