Sarri vs Spalletti: la grande bellezza contro la bella grandezza
Maurizio Sarri sfida Luciano Spalletti, passato e presente del Napoli allo stadio Maradona. Ne parla Angelo Forgione nel suo editoriale per AreaNapoli.it.

Torna Maurizio Sarri al “Maradona”, non per la prima volta, ma il sapore, stavolta, è più intenso. La prima volta da ex, gennaio 2020, con la Juventus capolista, e rimediò un’inattesa sconfitta da Gattuso, chiamato a rianimare un Napoli in preda ai nervosismi incrociati tra squadra, proprietà e tifosi. Secondo rendez-vous nel novembre 2021, e prese una lezione di calcio da Luciano Spalletti (4-0). È questo il terzo ritorno, mentre il Napoli schiaccia tutto e tutti sulla strada che porta allo scudetto, guidato da un allenatore che ha di fatto migliorato lo spettacolo del Napoli “sarrista”, apparentemente inarrivabile al tempo della separazione tra il tecnico figlinese e De Laurentiis. Al calcio italiano e pure all’Europa dei grandi, Spalletti ha imposto una “bella grandezza” che vale più della “grande bellezza” di Sarri. È questo il tema di un gustoso Napoli-Lazio in questa coda d’inverno che prelude a una colorata e festosa primavera azzurra.
Alzi la mano il tifoso del Napoli che, alla fine di maggio del 2018, non pensò di restare orfano dell’estetica di giuoco inculcata da Sarri ai ragazzi che avevano cullato il sogno dello scudetto, interrotto dal brusco risveglio operato da Orsato, vittima di un improvviso attacco di presbiopia, e da altri omologhi lungo il corso di una stagione ricca di episodi che definire discutibili è alquanto generoso. La dittatura in camicia bianconera continuò, ma quel Napoli, bello e divertente come non lo era stato neanche quello di Maradona, aveva fatto assaporare la liberazione. Tutto aveva preso i connotati di una rivolta popolare, guidata da un atipico capopopolo di sangue toscano nato nella periferia partenopea. Gli impavidi rivoltosi avevano persino perso il bombardiere più preciso, il mercenario che aveva rinforzato il nemico dall’altra parte della trincea. La rivoluzione napoletana si era fatta davvero minacciosa, pronta a irrompere nel bunker del dittatore. Il “Comandante” aveva dato il segnale per niente ortodosso sfoderando il dito medio a chi aveva sputato sulla napoletanità, e l’ariete nera aveva sfondato il portone del Palazzo, facendo tremare gli assediati per un vicino colpo di stato che fallì proprio quando sembrava ormai compiuto.
Sarri non vinse nulla con il Napoli, neanche una Coppa Italia, trofeo alzato da Mazzarri e Benitez prima e a Gattuso poi (proprio contro Sarri), ma ancor lo si ricorda per gli elogi e i consensi illustri che guadagnò, a partire da Guardiola. Resta il ricordo della fantastica storia di quel pifferaio toscano che, a suon di dichiarazioni contro la Juventus, provò a scacciare i topi, mentre la folla napoletana lo portava in trionfo. E lui portò il club a battere per due volte il suo record storico di punti in campionato, che poi apparteneva a egli stesso. 82 punti nella prima stagione, 86 nella seconda e quota 91 nella stagione del patto per lo scudetto. E pur senza vincere nulla, mandò al manicomio Allegri, stravincente con la Juventus ma fustigato dalla stampa e dall’opinione popolare per la sconcezza della sua proposta tattica. Max definì quello scudetto il più difficile, sofferto e appagante dei quattro vinti in Bianconero.
Archiviati i tre anni azzurri di Sarri, persino la Treccani si accorse del solco inciso dal suo Napoli nel campionato moralmente vinto, e coniò due neologismi dedicati alla filosofia tattica del nuovo tecnico del Chelsea. È proprio sull’affermazione di quei lemmi che è poi venuta fuori la realtà filtrata dal romanzo edulcorato del “sarrismo”, partorito dalla stampa dei “sarristi”, e della narrazione enfatica del “Comandante”, soprannome partorito dai tifosi napoletani, devoti a un uomo esageratamente elevato a simbolo di un proletariato calcistico che cercava di sottomettere il capitalismo dei padroni. Lui aveva pure ammiccato, dicendosi tifosissimo del Napoli, anche se lo era stato da bambino, prima di abbracciare l’amore per la Fiorentina. I linguisti dell’Enciclopedia avevano fissato il significato dei due termini, accostando la concezione del gioco propugnata dall’allenatore di Figline Valdarno all’interpretazione della sua personalità “come espressione sanguigna dell’anima popolare della città di Napoli e del suo tifo”. Ci pensò però proprio Sarri in persona a prendere le distanze dalla specificità partenopea della sua migliore espressione calcistica, chiarendo in un’intervista a Vanity Fair che “il sarrismo era semplicemente un modo di giocare a calcio e basta”. Egli stesso ridusse il suo credo calcistico a solo gioco, a prescindere da quell’ambiente che lo avesse sublimato, e ridusse la fecondazione del “sarrismo” alla sua vicenda personale, attribuendone la nascita esclusivamente alle sconfitte e agli schiaffi presi nelle categorie minori.
Chi scrive, al momento del discusso passaggio del mister alla Juventus, dopo un anno al Chelsea, avvertì i lessicografi dell’istituto enciclopedico che, per evidenti circostanze, non sussisteva più alcun nesso tra l’anima popolare dei napoletani e il loro ex condottiero. La risposta evidenziò che il legame tra Sarri e Napoli restava un elemento ben presente nella memoria collettiva degli appassionati di calcio, e che sarebbe stato lecito riflettere sull’opportunità di modificare le definizioni solo il giorno in cui si sarebbe eventualmente percepito che quel legame in tale memoria si sarebbe spezzato. A spezzarlo ci pensò proprio Sarri in persona, meno di un anno più tardi, dichiarandosi ormai “Gobbo”, ovvero detentore dell’identità juventina, perché i napoletani lo avevano fischiato e i fiorentini avevano insultato sua madre: «Quando sei così odiato dall’esterno poi ti attacchi all’interno, e questo ti porta a innamorarti della tua realtà, a diventare Gobbo». Sempre chi scrive, avvertì quelli dell’Istituto enciclopedico di rivedere le due voci per opportunità ormai conclamata dopo l’inequivocabile outing di Sarri, convincendoli a cassare l’attinenza della figura dell’allenatore con l’identità napoletana nel significato dei due lemmi.
Gobbo o opportunista che fosse, Sarri prese schiaffi morali e offese dalla gente juventina. La squadra non lo seguì, la dirigenza non lo protesse e i tifosi non lo amarono. Vinse lo scudetto, l’ultimo della dittatura juventina, e lo definì «lo scudetto più difficile dei 9 consecutivi», togliendo indirettamente valore alla sua vera impresa, quella di due anni prima, quando davvero il mondo juventino, dopo la zuccata di Koulibaly allo scialbore di Allegri, aveva tremato per la superiorità del suo Napoli. Cacciato, gli tolsero la finta gobba, e ora lo ritroviamo laziale. «La lazialità, se ti entra dentro, ti rimane. Questa è una società particolare. Dall’esterno non si può immaginare». Ipse dixit Maurizio, meno di due mesi fa, e da laziale dentro (fino alla prossima fede) tornerà al “Maradona” per sfidare la squadra per cui tifava da bambino, quella che sarebbe stata sempre la sua squadra, ovunque sarebbe andato. Così disse al momento della separazione dal Napoli, e ora lo sfiderà sapendo che è un Everest da scalare. Sfiderà Spalletti, scelto da De Laurentiis per la rivoluzione del Napoli arenatosi nelle secche di un ammutinamento, che nella prima stagione ha ottenuto 79 punti contro gli 82 del primo campionato del Napoli sarrista, ma alla seconda minaccia di battere almeno il record azzurro di 91 punti nella stagione del terzo scudetto. Alla giornata numero 24, i punti sono 65; cinque anni fa ne erano 63. 58 i gol fatti oggi, 54 allora, e identico è il dato dei gol subiti (15). In Champions è vicino il traguardo storico dei quarti, ben altra prospettiva rispetto all’eliminazione ai gironi del 2017-18. Non è solo una questione di numeri e traguardi. Il Napoli di Spalletti è addirittura più bello e geniale del bellissimo Napoli di Sarri, e ha evidentemente più soluzioni rispetto a quelle dello spartito unico, piacevolissimo ma recitato a memoria dalla squadra che sfiorò lo scudetto tra le ombre del 2018. Vero che il tecnico di Certaldo ha molta più qualità e quantità in panchina nonché più centimetri missati a forza fisica in campo, ma è anche vero che, all’esatto contrario di Sarri, non si è mai lamentato degli orari, degli anticipi, dei posticipi, degli arbitraggi e dei terreni di gioco, e non ha mai fornito un alibi che sia uno ai suoi, neanche quando ha perso nientepopodimeno che Osimhen, Kvaratskhelia e Anguissa. Spalletti ha saputo pure isolarsi dalla contestazione di chi ne aveva chiesto la testa dopo lo scudetto perso sul finale della scorsa stagione, ignorando offese e striscioni irriverenti e dimostrando alla squadra come ci si concentra sul lavoro. Niente scuse, testa bassa e tanta applicazione. Così Luciano ha plasmato il gruppo, l’ha reso granitico, gli ha inculcato consapevolezza nei propri mezzi e gli ha dato una mentalità vincente più inattaccabile di quella del gruppo che fu di Maurizio. Tutto tradotto in un’unica mente collettiva che detta movimenti perfettamente codificati e fa muovere gli undici in campo all’unisono nelle due fasi di gioco, come uno sciame d’api nella loro danza per indicare la direzione dei pollini e delle sorgenti d’acqua.
Dopo tre incroci tra Napoli e Lazio con gli Azzurri sempre vincenti, questo Spalletti-Sarri è più succulento. È la “bella grandezza” del Napoli del presente, in procinto di scrivere la storia, che incontra la “grande bellezza” del suo recente passato. Sullo sfondo, De Laurentiis gongola per il suo Napoli sempre più in alto, e al quale nessun traguardo sembra più precluso. La bellezza, ora che ha costruito grandezza, non gli basta più.

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