La gestione De Laurentiis: quando la critica ideologica ignora la realtà economica
Negli ultimi giorni, Marco Azzi ha espresso critiche sulla gestione della SSC Napoli, sostenendo che il club dovrebbe reinvestire di più per ottenere risultati sportivi migliori. Ma è davvero così?

Negli ultimi giorni, il giornalista Marco Azzi di Repubblica ha espresso, tramite i suoi canali social, opinioni critiche sulla gestione della SSC Napoli da parte della famiglia De Laurentiis, sostenendo che un club virtuoso non debba semplicemente accumulare utili, ma reinvestirli per ottenere risultati sportivi migliori.
Tuttavia, questa visione semplificata ignora un aspetto fondamentale: il calcio professionistico non è solo sport, ma anche impresa. Pertanto va valutato con le specifiche competenze, lasciando riposare la pancia. Tenterò, abbandonando con difficoltà la maglia del tifoso (altrimenti ragionerei di pancia anche io dopo le ultime vicende che hanno riguardato la poco brillante campagna acquisti di gennaio e gli scarsi risultati della squadra nel mese di febbraio), di focalizzare l’attenzione su alcuni concetti economico-finanziari che ogni tanto dimentichiamo.
Innanzitutto ripetiamo, ad abundantiam, che la famiglia De Laurentiis, secondo Forbes, dovrebbe avere un patrimonio personale di circa 200 milioni di euro. Ricchi ma non ricchissimi. Indipendentemente dalla attendibilità dei dati di Forbes, infatti, si tratta di briciole in confronto ai patrimoni delle grandi famiglie capitaliste che possiedono le squadre di calcio più ricche d'Europa. Solo per fare un esempio, la famiglia Iervolino, proprietaria della Salernitana (con un piede in serie C dopo due anni di scellerata gestione), sempre secondo le fonti di autorevoli giornali finanziari, dispone di un patrimonio di circa un miliardo di euro!
Pertanto, Aurelio De Laurentiis, che ha imparato in fretta anche la gestione di un'azienda di entertainment diversa da quella del suo core business (cinema), ha capito che doveva adottare un modello di business "bottega" in un contesto in cui non poteva permettersi il "negozio in via Montenapoleone". Questo approccio ha reso la gestione del Napoli più resiliente e sostenibile nel lungo periodo, rispetto a modelli basati su investimenti rischiosi e indebitamento elevato.
In secondo luogo Azzi ha evidenziato che esistono due modelli di club: quelli che puntano alla vittoria (indebitandosi) e quelli che investono su giovani e strutture. Sostiene inoltre che il Napoli non segua nessuno dei due modelli e “vivacchi alla giornata”. Vi risparmio (ma vi invito a leggere quanto sostenuto al riguardo su queste colonne) il discorso sul cambio del modello di business adottato dal Napoli negli ultimi 8 mesi su cui ho espresso delle perplessità. Il Napoli fino a 8 mesi fa aveva le idee molto chiare sul proprio modello di business e piuttosto dovremmo chiederci: “ma il nuovo modello di business, finora solo annunciato, che si basa su un organigramma articolato e verticistico, investimenti in calciatori/allenatori già affermati nonché in infrastrutture (Centro sportivo, settore giovanile), sarà sostenibile?” Perché se non posso permettermi il negozio in via Montenapoleone, allora non incarico neppure l’agenzia immobiliare di trovarmi i locali. Ma questo è un'altra storia!
Ritorniamo alle tesi di Azzi, parlando invece del rischio di impresa
Quando Aurelio De Laurentiis acquistò il Napoli nel 2004, investì circa 40 milioni di euro in una società fallita, con enormi incertezze e un futuro tutto da ricostruire. Dopo 21 anni, senza voler entrare nel merito della analisi di tutti i numeri (già affrontata su queste colonne) del bilancio del Napoli, il patrimonio netto (il dato che sintetizza il valore contabile e la salute di un'azienda) della SSC Napoli è salito a 212 milioni di euro, il che implica un rendimento annuo composto (CAGR) dell’8,27%. Questo significa che, in media, il valore del Napoli è cresciuto dell'8,27% ogni anno dal 2004 al 2025.
Gli è convenuto? È la domanda che deve farsi ogni imprenditore che ha rischiato il proprio capitale, che ha sostenuto un rischio di impresa.
Per valutare se questo rendimento sia stato adeguato rispetto al rischio d’impresa, possiamo confrontarlo con due alternative d’investimento:
1. Un BTP ventennale – un titolo di Stato a basso rischio, con un rendimento annuo medio stimato di circa 4,3%. In altri termini, se De Laurentiis (o qualsiasi altro imprenditore) avesse voluto non rischiare, avrebbe investito nel 2004 quei 40 milioni in un BTP a venti anni e si sarebbe portato a casa solo la metà del rendimento che attualmente gli offre il Napoli (8,27%). Non rischiando nulla, però!
2. Il costo del capitale proprio o capitale di rischio (Cost of Equity) nel settore Entertainment (dove rientrano i club calcistici) – che, secondo le stime di Aswath Damodaran, un rinomato professore di finanza presso la New York University, riconosciuto a livello mondiale come uno dei massimi esperti in valutazione aziendale, aggiornate a gennaio 2025, è del 9,09%. Ma cosa significa "costo del capitale di rischio"? Cerco di spiegarlo ai lettori (e non solo) che hanno poca dimestichezza con questi concetti con un esempio molto semplice. Immaginate di voler aprire un chiosco di gelati. Per farlo, avete bisogno di soldi per comprare i gelati, il frigorifero e il carretto. Però, non avete tutti i soldi che vi servono, quindi chiedete aiuto a un amico che vi presta i suoi risparmi per avviare l’attività. Il vostro amico, però, non vi presta i soldi gratis. Vi dice: "Io ti do questi soldi, ma visto che c’è il rischio che tu non riesca a vendere abbastanza gelati e a restituirmeli, voglio un premio per il rischio che sto prendendo." Questo premio è il 9,09% ogni anno. Significa che, se lui vi presta 100 euro, si aspetta di ricevere indietro almeno 109,09 euro dopo un anno per compensare il rischio che ha preso. Chiaro ora, perché si chiama "di rischio"? Perché se il vostro chiosco va male e non vendete abbastanza gelati, potreste non riuscire a restituire i soldi al vostro amico. Lui, quindi, sta rischiando di perdere il suo investimento. Più il rischio è alto, più soldi vorrà indietro per essere compensato. Nel mondo delle aziende, chi investe in una squadra di calcio sta facendo una cosa simile: mette soldi sperando di guadagnare di più in futuro, ma siccome non c’è la certezza, vuole un rendimento adeguato al rischio che corre. Per le squadre di calcio, questo "premio per il rischio" è di circa 9,09% all’anno.
Questa analisi dimostra che De Laurentiis ha ottenuto addirittura un rendimento (8,27%) leggermente inferiore al rischio d’impresa del settore (9,09%).
È vero, si potrebbe obiettare dicendo che comunque il CDA (Consiglio di Amministrazione) del Napoli, composto da cinque persone (la famiglia De Laurentiis e Andrea Chiavelli), negli ultimi 21 anni ha percepito compensi (che, ricordiamolo, sono stipendi, non dividendi) per circa 43 milioni di euro, pari quindi a circa 2 milioni all’anno (mediamente 400.000 euro per singolo componente). Volendo fare un gioco per capire meglio la portata di questi numeri, proviamo a vedere gli stipendi medi dei componenti del board di una società quotata in borsa (Il Napoli non lo è). Secondo i dati tratti dalla ventisettesima edizione dello Spencer Stuart Board Index, il compenso medio totale dei Ceo ammonta a 2,12 milioni di euro (a fronte degli 1,71 milioni del 2020), mentre la componente fissa si attesta sugli 854 mila euro (contro i 790 mila dell’anno precedente).
Infine Azzi sostiene che un club virtuoso debba investire tutti i propri utili invece di accumularli come “salvagente” per eventuali crisi. Questa visione, tuttavia, non tiene conto delle regole basilari della gestione aziendale:
Indebitarsi per vincere a ogni costo è rischioso: Molti top club europei hanno seguito questa strada, accumulando debiti enormi (basti pensare al Barcellona o al Manchester United). Un modello che può portare a crisi finanziarie irreversibili.
Sostenibilità e crescita vanno di pari passo: Il Napoli ha sempre mantenuto i conti in ordine, evitando di esporsi finanziariamente oltre le proprie capacità. Questo ha permesso al club di restare competitivo anche in periodi difficili.
Gli investimenti sono stati fatti: Il Napoli ha investito nel player trading. Forse non tutti sanno che in 21 anni il Napoli ha acquistato calciatori per circa 1,3 miliardi di euro! E non si è trattato di semplice accumulo di utili, ma di una strategia attenta e prudente.
In conclusione le critiche di Marco Azzi sembrano più ideologiche che basate su un’analisi oggettiva. La realtà è che la famiglia De Laurentiis ha saputo trasformare il Napoli da un club fallito a una realtà finanziariamente solida, con una crescita del valore patrimoniale in linea con il rischio d’impresa. Sì, si può sempre fare di più e meglio, ma l’alternativa di un club iper-indebitato e senza prospettive di lungo termine non è certo la soluzione.
La gestione De Laurentiis ha dimostrato che si può competere senza mettere a rischio la sopravvivenza del club. E questo, nel calcio moderno, è un successo che vale più di una singola stagione gloriosa ma economicamente insostenibile.
Resto disponibile per un civile confronto con Marco Azzi o chiunque voglia approfondire il tema con un’analisi basata sui dati e non solo sulle opinioni.





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