Il filosofo della fuffa è tornato: Spalletti e la comunicazione sanfedista
Luciano Spalletti, recentemente, è tornato a parlare di Aurelio De Laurentiis. Ma le sue parole sono gonfie di una retorica bassa e vuota di significato.

Dietro la cortina di fumo delle sue metafore e dei suoi giri di parole, Luciano Spalletti ha fatto quello che molti prima di lui hanno fatto: ha conquistato il cuore di Napoli con promesse eleganti, per poi voltargli le spalle. La sua ultima trovata? Nel suo ultimo libro un capitolo sul rapporto con il presidente De Laurentiis che è un manifesto della retorica vuota. E un comportamento che sa di antico inganno sanfedista.
Il filosofo della fuffa è tornato con la sua comunicazione sanfedista. E lo ha fatto alla grande, con l’annuncio del suo libro: “Il paradiso esiste ma quanta fatica”. Un titolo che sembra uscito da un meme, e invece è il nuovo tassello di una strategia comunicativa ormai ben rodata: parole a effetto, immagini suggestive, ma significato prossimo allo zero almeno per quanto riguarda un capitolo su De Laurentiis, dal titolo “Il Sultano e il Contadino”. Sembra il trailer di una fiction turca, invece è il solito Spalletti-style: parole gonfie, significati leggeri.
Dice di essere “al fianco di De Laurentiis nella storia del Napoli, ma fuori da quella storia no”.
Tradotto: abbiamo vinto insieme, ma lui resta insopportabile. Però non riesce a dirlo. Preferisce la poesia da biscotto della fortuna, i giri di parole, i non detti spacciati per profondità.
Il punto è semplice: Spalletti è un grande allenatore, ma quando prende il microfono si trasforma nel Re della retorica inutile. Le sue dichiarazioni sembrano uscite da un laboratorio di comunicazione onirica: tante immagini, poca chiarezza.
Un consiglio per il lettore: aspettate il libro, magari con le note a margine spiegate da uno psicoanalista.
Questa strategia comunicativa – affascinare il popolo con belle parole, mentre si lavora per altri fini – non è nuova a Napoli. È un riflesso antico, che affonda le radici nella storia della città e nel suo rapporto travagliato con il potere. È il riflesso sanfedista, appunto: quella corrente reazionaria che, durante la rivoluzione napoletana del 1799, si opponeva alla Repubblica Partenopea in nome del trono e dell’altare, guidata dal cardinale Ruffo.
Ferdinando IV di Borbone, sovrano fuggiasco, promise il ritorno alla normalità e alla protezione divina, mentre lasciava che i lazzari venissero mobilitati come manovalanza militare. Gli vennero credute parole rassicuranti, mentre la restaurazione della monarchia si preparava con esecuzioni e vendette. La città fu sedotta e tradita, proprio come oggi – in scala diversa – accade con le parole di Spalletti: incantano, mentre sotto scorre un’altra realtà.
Ed è questo il cuore del problema: Spalletti ha tradito il popolo napoletano. Non tanto per essere andato via – quello può capitare – ma per il modo e il momento in cui lo ha fatto. La notizia della sua decisione di non proseguire è arrivata il 15 maggio 2023, a scudetto già vinto, con un contratto in essere e un’intera città in attesa di un nuovo ciclo glorioso. De Laurentiis, che pure ha sbagliato tanto dopo, contava sulla sua permanenza per garantire continuità. È stato invece lasciato spiazzato, abbandonato all’improvviso.
E il popolo, ancora una volta, è rimasto col cerino in mano. Sedotto da un discorso mellifluo, pieno di gratitudine posticcia, metafore bucoliche e riflessioni zen. Un saluto elegante, certo. Ma anche una colossale mancanza di chiarezza e responsabilità.
Nel frattempo, però, la città si è lasciata incantare ancora una volta. Il sindaco “sveglione”, incapace di vedere dietro le quinte del teatrino retorico, gli ha conferito la cittadinanza onoraria. Una scelta che oggi suona assurda. Come si può onorare chi ha voltato le spalle proprio nel momento in cui serviva esserci? Spalletti potrà anche tenere quella targa appesa al muro, ma da napoletano doc non lo riconosco come mio concittadino. Perché Napoli non è un premio, è un patto di cuore e di coerenza. E chi lo spezza, non ha cittadinanza spirituale tra di noi.
Ma il colpo di scena finale è stato degno del miglior trasformista. Dopo tante parole sulla stanchezza e sul bisogno di un “anno sabbatico”, Spalletti ha fatto l’ennesimo salto acrobatico: è finito sulla panchina della Nazionale. E lì ha continuato a dispensare citazioni e riflessioni, oggetto di caricature di comici ed imitatori
Come se non bastasse, Spalletti ha dichiarato anche che non allenerà mai più una squadra di club in Italia dopo aver guidato il Napoli. Un’altra promessa. Un altro impegno solenne, pronunciato con quella sua voce quieta e grave, che sembra sempre uscita da un’aula universitaria.
E allora facciamola, una scommessa: volete vedere che tra qualche mese, magari dopo un esonero da CT, se ne uscirà con l’ennesima supercazzola? Un’altra trovata poetica per mascherare l’ennesimo tradimento, l’ennesimo cambio di direzione mascherato da destino.
Un giorno questo libro troverà posto sulle mensole dei tifosi più ingenui, quelli che confondono la retorica con la verità. Ma per chi ha memoria lunga e un minimo di dignità, resterà solo la prova scritta di un addio infiocchettato da bugie. Un’opera che non celebra un trionfo, ma documenta con eleganza ipocrita il peggiore dei tradimenti: quello camuffato da amore.
Il filosofo della fuffa è tornato.
Ma Napoli, stavolta, non si fa più prendere in giro.
Perché ci si può anche innamorare di chi racconta emozioni (ma non parla bene), ma prima o poi arriva il giorno in cui si capisce chi ci ha voluto davvero bene.
E Spalletti, con tutto il suo talento, ha scelto se stesso.





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