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I "fondi private equity" non sono la cura: teniamoci Aurelio

I famigerati fondi non sono la panacea dei mali del calcio italiano, anzi per una società come il Napoli potrebbe essere addirittura deleteri. Scopriamone il motivo.


Vincenzo ImperatoreVincenzo ImperatoreAnalista finanziario e giornalista

27/03/2024 19:08 - Altre notizie
I fondi private equity non sono la cura: teniamoci Aurelio

Vogliono una proprietà più passionale e identificata con la città e la gente e, poi, la domanda più ricorrente che il popolo dei denigratori si (e mi) pone pur di liberarsi di Aurelio De Laurentiis è questa: «E se arrivasse un bel fondo di private equity e comprasse il Napoli, così come è successo al Milan e all’Atalanta?». Un paradosso dettato dalle notizie che corrono e che (quando riguardano il calcio) sono riportate in una maniera enfatica e spesso intrisa di approssimazione e di “tuttologia”, la malattia che colpisce quelli che discettano di tutto senza averne le competenze.


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Pur trattandosi di una materia complessa, il presidente per un giorno la fa facile, perché, come abbiamo già ripetuto più volte, la tasca non è la sua, e soprattutto perché non conosce i rischi e le conseguenze di questa nuova figura di proprietario di una società di calcio. Chiariamoli, allora. I fondi di private equity si caratterizzano per operazioni di investimento finanziario offerte a soggetti privati (ricchi investitori, banchieri, società di assicurazioni, fondi pensione) che valutano le opportunità aziendali presenti sul mercato e individuate dai gestori dei fondi stessi. In altri termini, essi acquistano le quote societarie di aziende di cui vogliono aumentare il valore in un determinato lasso di tempo (solitamente circa cinque anni). Successivamente, mediamente per altri cinque anni, vivono una nuova fase definita di disinvestimento nella quale si valorizzano le aziende in portafoglio e si provvede alla loro cessione realizzando un guadagno (capital gain).


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In pratica, hanno un unico obiettivo: rivendere, guadagnandoci, in un arco di tempo massimo di dieci anni. E quindi non assicurano una continuità gestionale, condizione fondamentale per un’azienda di calcio orientata alla stabilità dei successi

Per un fondo di private equity l’ingresso in una azienda di calcio è un investimento rischioso. Se dopo pochi anni non riesce a ricavarne i capitali desiderati, lascia il club con i conti in rosso e un posizionamento svilente sul mercato. I fondi non sono come i coccodrilli, sono abituati a metabolizzare le perdite.

In secondo luogo, il fondo di private equity vuole governare e gestire l’azienda, ed è quindi interessato a monitorare quotidianamente e costantemente l’andamento della società attraverso report dettagliati, al fine di tenere sotto controllo l’andamento del proprio investimento.

Se ha la maggioranza delle quote non c’è nessun problema: gli altri, vedi i Percassi di turno (Atalanta), faranno le comparse, anche se la stellina sulla giacca li colloca formalmente in una posizione di vertice.

Se invece si trova in una posizione di minoranza, il fondo di private equity si tutela, introducendo nello statuto apposite clausole di governance, dai rischi derivanti dalle decisioni di gestione ordinaria dell’impresa prese dal management in carica. In altri termini, se il direttore sportivo (ad esempio Maldini quando era al Milan) vuole acquistare un calciatore il cui investimento altera l’equilibrio finanziario della società, il fondo si oppone, proponendo un aumento di capitale che la vecchia proprietà non può sostenere. A quel punto il fondo immette i capitali necessari e assume la maggioranza: stesso risultato (comandare e decidere), ma con un percorso diverso.

Un approccio meramente computistico e non sentimentale: le acquisizioni dell’Atalanta o del Milan vanno lette come un investimento che mira non al benessere di squadra e tifosi, ma alla crescita del club dal punto di vista finanziario e patrimoniale per renderlo appetibile sul mercato nel momento della sua vendita.

Infine, vi siete mai chiesti il perché di questo improvviso interesse per il calcio italiano?

I fondi di private equity non sono filantropi, ma, come avvoltoi, sono attratti dalle carcasse dei cadaveri. Investono in settori con grossi problemi finanziari, come appunto il calcio nel nostro Paese, e li rigenerano per ottenere credito a condizioni più vantaggiose, tagliano costi, sostengono i ricavi e poi, anche di fronte a risultati sportivi di rilievo, mirano a vendere a prezzi gonfiati, alimentando così la bolla speculativa sportiva anziché curarla.

Indipendentemente dai risultati, io mi terrei Aurelio De Laurentiis, che, tra l’altro, dotato com’è di autonoma competenza, non ha mai nascosto la sua idea sui fondi. Nella puntata di Report su Rai3 del gennaio scorso ha dichiarato alla sua maniera: «Ho usato il signor Agnelli perché mi serviva che andasse in cu** ai fondi che erano un’altra stronz****. Quei morti di fame della Lega, per un tozzo di pane, si stavano vendendo 7-8 anni… Ma che siete matti? Allora ho usato Agnelli, perché i fondi non gli permettevano di fare la Superlega, e lui si è scagliato contro».

A Napoli si dice «nun lassa’ ’a via vecchia p’a nova, ca saje chello ca lasse e nun saje chello ca truove!» (non lasciare la vecchia via per la nuova, perché sai ciò che lasci e non sai ciò che trovi). 


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Vincenzo ImperatoreVincenzo Imperatore
Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato 22 anni come manager di un istituto di credito. Dal 2012 è un libero professionista, saggista, scrittore e giornalista pubblicista. Collabora con importanti testate.

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