Thiago Motta, dal 2-7-2 al compromesso tra gioco posizionale e relazionale. Il profilo di un visionario
Thiago Motta, l'allenatore che ha spinto il Bologna in Europa. Alla scoperta del gioco del tecnico italo-brasiliano. I numeri, la tattica e il suo credo calcistico.

Quando qualche anno orsono ai tempi della sua prima esperienza alla guida della Nazionale di Francia Under 19 gli chiesero quale fosse il suo sistema di gioco, rispose provocatoriamente il 2-7-2, parve chiaro ai più che si fosse al cospetto di un vero e proprio visionario. A chi gli avesse chiesto delucidazioni in merito a quei numeri ebbe a spiegare che il portiere nel suo sistema era contato nei sette in mezzo al campo, aggiungendo come per la sua filosofia l’attaccante fosse il primo difensore e il portiere il primo attaccante. Come dal portiere partisse il gioco, con i piedi, e dalle punte il pressing offensivo per recuperare la palla, aggiungendo poi che la lavagna tattica per la lettura del suo sistema di gioco era intesa in verticale e non in orizzontale. La lavagna riprodotta di seguito ci aiuta in tal senso, mostrando come un sistema di gioco che tradizionalmente descriveremmo come 1-4-1-4-1, sia in realtà nella sua maniera di vedere il calcio proprio un 2-7-2
Al di là di quelle che sono le schematizzazioni, con il suo Bologna, Thiago Motta ha inventato quella che potremmo chiamare terza via tattica. La squadra rossoblù sta infatti mescolando in modo sapiente le due tendenze più in voga degli ultimi anni: il gioco di posizione e quello di relazione. Questa contaminazione confermata dallo stesso Thiago Motta lo scorso 27 febbraio nel corso dell’evento organizzato dall’Associazione Allenatori all’Università di Bologna, sta alimentando un dibattito che ricorda i tempi in cui Arrigo Sacchi istituzionalizzò la linea alta nella difesa a zona, superando di fatto il dogmatismo radicale e l’ortodossia della marcatura a uomo e della zona mista. Chi ricorda quell'epoca sa che l’argomento era incentrato su un vero e proprio scontro filosofico tra due scuole di pensiero, due scuole opposte destinate a non poter trovare un punto di incontro.
Quella di oggi sembra invece una situazione più fluida, pur riscontrando tra i due modelli delle differenze. La necessità di dover ricondurre tutto a una categorizzazione di fondo aveva trovato una sponda ideale nella finale del Mondiale per Club tra Manchester City e Fluminense del 23 dicembre scorso, gara che venne presentata e vissuta come il confronto tra due allenatori considerati come i principali esponenti dei due mondi, Pep Guardiola per il calcio posizionale e Fernando Diniz per il calcio relazionale. Personaggio quest'ultimo di spessore filosofico e sociale straordinario nel proprio paese e che meriterà certamente una trattazione dedicata nel prossimo futuro. Il buon Pep aveva scannerizzato al meglio la filosofia di gioco del novello profeta Diniz, fautore di un gioco dal tipico stile brasiliano degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, fatto di passaggi brevi, combinazioni impegnative e di alto livello tecnico, enfatizzando le connessioni tattiche ma anche empatiche tra i suoi elementi.
Tuttavia come spesso accade "in medio stat virtus" e Thiago Motta sembrerebbe percorrere una terza via in cui questi due modelli si intersecano e si completano a vicenda, fino a trovare un punto di congiunzione nel camaleontismo dell’allenatore, nella sua capacità di privilegiare un approccio piuttosto che un altro in relazione a ciò che l’avversario propone a sua volta. Non a caso il Bologna al cospetto di squadre come la Lazio, che tendono a difendersi a zona, ha mostrato un’organizzazione sui ruoli; mentre ad esempio a Bergamo contro una compagine che non ti permette di giocare, si è rivelata fondamentale la relazione tra i giocatori del Bologna nel guardarsi e capirsi. Questi due esempi raccontano l’anima mutevole della squadra di Motta: contro la Lazio di Sarri il Bologna ha costruito la vittoria in rimonta attraverso i principi del gioco di posizione, vale a dire riaggressione alta, occupazione dello spazio alle spalle di prima e seconda linea di pressione, creazione della densità in zona palla per poi ricercare l’inserimento dal lato debole; contro l’Atalanta, invece, l’idea del tecnico dei felsinei è stata quella di disorganizzare un sistema di uno contro uno a tutto campo attraverso la connessione tecnica tra i giocatori, creando lo spazio prima ancora di occuparlo, e di fatto è andata esattamente in questo modo.
Questa autentica ibridazione tra i due modelli che Motta sta portando avanti da un anno e mezzo con un certo successo, definisce il Bologna come una squadra moderna, aggressiva, che vede in Riccardo Calafiori il suo animale totemico e che tende naturalmente verso un calcio di tipo posizionale che però si sviluppa attraverso le connessioni tra elementi tecnicamente compatibili. Queste connessioni sono multiformi, eterogenee, slegate tra loro e dipendenti dalle letture nelle singole situazioni: l’associazione tra i giocatori in campo non è mai fissa o predeterminata, piuttosto è affidata alla qualità di lettura dei singoli, liberi di scegliere come, quanto e quando connettersi e soprattutto in che modo farlo. Questo tipo di approccio richiede una notevole velocità di pensiero degli interpreti portando come valore aggiunto la impossibilità di decodifica da parte degli avversari.
Sarebbe auspicabile che lo staff di Calzona prendesse ad esempio la partita disputata dal Bologna il 14 febbraio scorso contro la Fiorentina di Italiano, visti i tanti punti di contatto esistenti tra l'undici viola e quello partenopeo. In quella gara, al cospetto di una squadra che in questa stagione ha dimostrato parecchie difficoltà a mantenere distanze corte per tutto l’arco dei 90’, il Bologna ha privilegiato un gioco lungo che nella prima costruzione si sviluppava attraverso il dialogo tra il portiere che in quella occasione era Ravaglia e non Skorupski e i due centrali, andando a sfruttare tanto l’ampiezza con combinazioni tra quarti e quinti di centrocampo, quanto la profondità lungo la direttrice di connessione Ferguson-Orsolini. Il risultato finale ha visto la vittoria del Bologna che ha ulteriormente rafforzato idee e consapevolezza della forza del gruppo.
Oggi Thiago Motta è considerato un tecnico pronto per una big, architetto di un complesso che disegna calcio armoniosamente ed elasticamente, passando per princìpi concettualmente confacenti ad una proposta altamente qualitativa e diversificata: la capacità di innalzare il livello individuale all’interno del collettivo, individuando caratteristiche precise alle quali affidare mansioni e compiti, in zone di campo differenti e mutando l’interpretazione degli attori protagonisti, è la principale caratteristica del tecnico italo-brasiliano che continua a sorprendere il movimento calcistico nazionale, incuriosendo sempre più gli appassionati perentoriamente più attenti ai dettagli di natura squisitamente tattica.
Motta rappresenta l’esempio di quanto vacue e senza senso siano alcune teorie secondo le quali il “dovere” di proporre un gioco di qualità sia da confinare alla necessità di avere elementi di spessore assoluto, sciocchezza concettuale invereconda nell’attuale sistema planetario del football; questa tesi incondivisibile per i cultori di un calcio moderno sottintende che tenuta mentale, voglia di imporsi, spessore caratteriale, trasmissione di adeguata cattiveria agonistica e dignitosa intelaiatura tecnico-tattica siano elementi facoltativi e non annoverabili tra i doveri di qualsivoglia guida tecnica, il cui compito indispensabile è cercare di fare esprimere e possibilmente elevare la propria squadra ai livelli più alti di performance e di osmosi potenzialmente raggiungibili da uno collettivo.
La squadra del Presidente Joey Saputo esprime un calcio evoluto, all’avanguardia, notevolmente innovativo e rigorosamente contestuale, lasciando tuttavia libertà d’espressione individuale in quelle circostanze che maggiormente richiedono l’esposizione del talento e della genialità di alcune visioni; un calcio preliminarmente consapevole nella preparazione tattica al cospetto dell’avversario di turno, e altresì mutevole negli elementi a cui assegnare il compito e la funzione più pertinente. Ammirare come i centrali difensivi si sistemino a piede invertito, oltre a testimoniare la maniacalità del sistema, risulta rimarchevole già solo per l’infinito ventaglio di diramazioni di effetti e possibilità che questa idea comporta, dalla fase di impostazione alle chiusure, con il piede “forte” all’interno e non all’esterno del terreno di gioco, dettaglio quest'ultimo non trascurabile.
Provare a recludere un tale approccio in un rigido e quantomai superato sistema di gioco risulta esercizio di dottrina stantìa, almeno per questo Bologna. Il comportamento dei centrali "difensivi" spiega tanto di questo genere di approccio in cui essi vengono chiamati ad andare in conduzione attaccando lo spazio creato ad arte dai movimenti del vertice basso del centrocampo agendo quindi da mediani davanti al triangolo difensivo, mentre le mezzali dettano una linea di passaggio immediata attraverso movimenti sia in ampiezza che a sostegno in base allo sviluppo dell'azione e alla pressione avversaria secondo quelli che sono noti come alcuni dei principi del cosiddetto "Calcio Liquido".
In questa armonica evoluzione della dinamica di gioco, gli esterni offensivi si dispongono larghissimi, pronti a entrare col piede forte verso la porta. In questa sinfonia di movimenti un elemento come Riccardo Calafiori assurge ad immagine iconografica suprema della realizzazione delle idee di Thiago Motta, con l’ulteriore dimostrazione di quanto il valore espresso da un giocatore possa mutare in base alla bravura dello staff tecnico. La fluidità della manovra è rimarcata da continui scambi di posizione e da rotazioni ben definite. Un sistema dunque mobile e malleabile, delizioso nel palleggio, nella conduzione e nei movimenti, attento alla copertura di ogni spazio, basato sul controllo della palla per attirare e ingannare la pressione che viene sapientemente utilizzata, in una sorta di equilibrio che non li conduce fin dentro l’area avversaria per esercitarla, né suggerisce naturalmente di attendere i dirimpettai nella propria metà campo. Piuttosto, Freuler e compagni, cercano di creare una o due linee di pressione nella zona che ritengono sia più utile neutralizzare, vale a dire il primo quarto di campo avversario, dove i centrocampisti possono ricevere e, qualora liberi, guardare in avanti facendo avanzare pallone e squadra. Bloccare la ricezione dei centrocampisti diventa così un’arma duplice, capace di trarre i difensori nell’errore di forzare i passaggi, ma anche di isolare sempre i centrocampisti dalla manovra, togliendo risorse creative.
Anche il possesso palla, dato che vede i felsinei secondi in graduatoria con il 58,1%, è una fase in cui ognuno si muove assecondando i movimenti dei propri compagni e seguendo gli spazi liberi, in quello che diviene un continuo fluttuare di uomini ed idee che rende la creatura plasmata da Motta quanto di più godibile possa esserci in un torneo come il nostro, sovente storicamente caratterizzato dalla fossilizzazione della tradizione, da una sorta di minimalismo concettuale, da una scarna ricerca di soluzioni propositive differentemente imperativo categorico del calcio moderno.
Possiamo anche dire che ad oggi uno dei tratti più riconoscibili del Bologna è la capacità di creare densità da una parte del campo portando molti giocatori vicini tra loro per poter creare una serie di potenziali linee di passaggio che costringe gli avversari a prendere una decisione: il marcatore seguirà il suo uomo a tutto campo oppure si accetterà di essere numericamente in svantaggio in quella piccola frazione così da rimanere più saldi come blocco difensivo?
Per far sì che la manovra del Bologna risulti sempre fluida è necessario che l’azione inizi palla a terra, anche perché in questa situazione di gioco ci si può relazionare in tanti modi differenti: due centrali con il portiere in mezzo tra loro, linea a tre con uno o due giocatori davanti o linea a 4 con due mediani; l’importante è la velocità con cui si gioca il pallone così da superare il primo pressing. L’obiettivo di questa rapida transizione è spostarsi su una delle due fasce muovendo i marcatori avversari tanto da permettere ad uno dei due centrali di sganciarsi per fornire un’ulteriore linea di passaggio e, quindi, ulteriore fluidità.
Un passaggio va fatto anche sulla costruzione dal basso che avviene con pazienza, senza correre rischi, con una circolazione in alcuni frangenti addirittura compassata quasi sullo stile della Roma di Liedholm, al fin di attirare il pressing avversario, alla stregua di quanto più volte si vede fare alle squadre di De Zerbi, in maniera non fine a se stessa ma in attesa della soluzione più corretta e fruttifera: testimonianza ne è il dato relativo ai tocchi nel proprio terzo di campo che vede il Bologna primo con una media di 229 tocchi di media a partita.
Quanto poi alla fase di pressing del Bologna, essa ha come grande pregio quello di far credere agli avversari che ci sia sempre una parte del campo libera, mentre quella è in realtà la zona designata dall’allenatore dove recuperare il pallone. Inevitabilmente, quando si affrontano squadre forti nel palleggio come per esempio il Napoli, si deve accettare di correre dei rischi; d’altronde, anche il migliore dei pressing può essere superato da una fitta rete di passaggi di prima.
Questo paradigma diventa quasi perfetto se analizziamo il lavoro che Motta ha fatto con i calciatori mettendoli al centro del progetto e facendo in modo che essi potessero brillare anche dopo aver avuto molte difficoltà nello stesso campionato italiano. A fare la differenza in questo senso è stata senza dubbio proprio la voglia del tecnico italo-brasiliano di mettere l’allenatore al servizio del giocatore, e non viceversa. E così la giovane promessa proveniente dal Bayern Joshua Zirkzee, è sbocciata finalmente tra le sapienti mani di Thiago al punto di assurgere ad autentica rivelazione del torneo, immensamente cresciuto praticamente sotto tutti i punti di vista, anche in quella che sembrava la pecca maggiore per un centravanti, ossia la capacità di garantire un cospicuo numero di gol al di là dell’attiva e sublime partecipazione ad una manovra addirittura dipendente dalle sue esecuzioni. Questa metamorfosi si è concretizzata grazie alla incondizionata libertà di movimento garantitagli che gli concede di abbassarsi di frequente in posizione di vertice sulla trequarti per ricevere ed associarsi con i compagni, altresì facendo perdere riferimenti agli avversari e favorendo così la creazione di spazio per gli inserimenti delle mezzali e degli esterni alti.
Va anche rimarcata l’importanza di quattro acquisti estivi: oltre al già citato Riccardo Calafiori, Sam Beukema, Remo Freuler e Alexis Saelemaekers si sono rivelati incastonati alla perfezione nella macchina felsinea. Non si può parlare separatamente di Beukema e Calafiori, dal momento che le principali migliorie tattiche della squadra sono arrivate proprio in difesa. Beukema è sbarcato in Italia dopo un paio di stagioni più che buone con la maglia dell’AZ, ed è stato un acquisto mirato. Diverso il discorso su Calafiori il quale, dopo annate tormentate dagli infortuni e dal poco spazio trovato alla corte della Roma "mourinhana", al Basilea il terzino è riuscito a trovare un minutaggio decente e a mettere in mostra le sue qualità. Quando è arrivato a Bologna c’era difficoltà nel comprendere come sarebbe potuto inserirsi nelle tattiche di una squadra che aveva salutato Cambiaso, e accolto un Victor Kristiansen (altro volto nuovo) a presidiare, più che bene, la corsia di sinistra.
I soli ad avere già chiaro il progetto erano il direttore sportivo Giovanni Sartori e lo stesso Thiago Motta. E la differenza più evidente tra i felsinei della scorsa stagione e questi è in difesa. Con Beukema, centro-destra, e Calafiori, centro-sinistra, si completa una linea a quattro di difesa (Posch e Kristiansen larghi) che permette di avere un ampio ventaglio di soluzioni in fase di possesso palla e di prima costruzione. Riuscire a capire i movimenti della difesa è fondamentale per comprendere la fluidità richiesta da Motta che non a caso per bilanciare il tutto ha scelto un giocatore che ha fatto dell’equilibrio e dell’intelligenza tattica i suoi cavalli di battaglia. Remo Freuler forgiatosi alla scuola bergamasca di Gasperini, nonostante le indicazioni richieste alla squadra e al singolo fossero diverse, non ha avuto soverchie difficoltà ad adattarsi alla perfezione alla nuova realtà. Dopo la parentesi in terra inglese con la maglia del Nottingham Forest, Freuler è tornato in Serie A da protagonista, dando spesso l’impressione che nella sua testa l’azione si svolga sempre un attimo prima della realtà e questo lo porta a trovarsi sempre al posto giusto e in una squadra dove tutti, o quasi, sono pronti a staccarsi per aiutare la manovra offensiva, sapere di avere alle spalle un uomo-ovunque come l’ex Atalanta permette di farlo con dosi minori di ansia e pressione.
Ma il merito principale della sostenibilità di questo sistema è il contributo di tutti i centrocampisti, ed è importante soffermarsi sul capitano di questa squadra, Lewis Ferguson. L’ex giocatore dell’Aberdeen si è preso fin da subito un posto nel cuore dei tifosi rossoblù e al centro dell’idea di gioco di Motta. Già nella passata stagione lo scozzese aveva mostrato le sue qualità tanto in fase di costruzione quanto come incursore, chiudendo con sette gol in una pregevole stagione. Quest’anno non si sta solo ripetendo, ma sta anche andando oltre distinguendosi rispetto agli altri centrocampisti risultando nell’88esimo percentile per non-penalty xG per 90’ (0.16), nell’89esimo per tocchi nell’area avversaria per 90’ (2.43), nel 90esimo per passaggi progressivi ricevuti a partita (4.39) e nel 91esimo per falli subiti in 90’ (2.04, tutti dati fonte FBREF). Questi dati statistici ci restituiscono l’identikit di un giocatore offensivamente imponente, eppure Ferguson sa essere molto di più, perché lo scozzese sembra essere l'uomo più in sintonia con le idee di gioco di Motta.
A prescindere dalla zona del campo in cui si trova rappresenta un porto sicuro per tutti i compagni di squadra e la sua continua attività di scansione del campo gli permette di cercare subito una zona libera dove ricevere il passaggio e capire verso quale direzione si muoveranno gli avversari. Non è quindi un caso se Thiago Motta ha parlato di quanto sia diventato difficile scegliere chi far giocare a centrocampo. Oltre Freuler e Ferguson sono tanti i nomi per pochi posti: Aebischer, imprescindibile o quasi, Fabbian, il quale si sta ritagliando sempre più minutaggio risultando spesso da neo-entrato tra i principali marcatori con i suoi inserimenti in zona di finalizzazione che lo hanno portato a ben 5 reti e 2 assist, Moro, in calo rispetto alla scorsa stagione ma pur sempre prezioso, e Urbanski, giovane dalle grandissime potenzialità che ha già dimostrato di essere pronto per la Serie A.
L’ultimo ad aver permesso di completare la trasformazione del Bologna è Alexis Saelemaekers. Il belga arrivato dal Milan al termine di un’esperienza con alti e bassi, si è trovato in un contesto tecnicamente a lui più consono. Spostato da destra a sinistra dal tecnico, nel tentativo di sfruttare al massimo le sue qualità tecniche e di nascondere alcune sue carenze atletiche più evidenti. A Milano si chiedeva al belga di pestare la linea della rimessa laterale per saltare l’uomo e arrivare a crossare in fondo, a Bologna il compito è quello di entrare dentro il campo per attirare su di sé il pressing così da poter scaricare verso l’esterno difensivo della sua stessa corsia, che nel frattempo si è sovrapposto, o verso l’altro lato del campo, e l’esterno belga è abilissimo in questo: sa quando fermare il gioco e quando accelerare per prendere contro tempo la difesa.
Anche per molti addetti ai lavori entrare in sintonia con questo modo innovativo di concepire il calcio, specie quello moderno, non è semplice e, soprattutto, non c’è una formula matematica che possa garantire di raggiungere scientificamente un risultato applicando semplicemente un metodo. Ci sono tante possibilità, ciascuna delle quali ha una propria efficienza che muta a seconda di tutti quei fattori che abbiamo provato a spiegare. Thiago Motta non ha forgiato il suo Bologna sulla ripetizione del caso, ma sull’imprevedibilità delle possibilità che ha imparato a costruire e che continua a costruire. L’italo-brasiliano ha impresso la costante volontà di reagire all’avversario così da costringerlo a sua volta alla reazione, la coesione tra gruppo e staff ha permesso la realizzazione di tale volontà e lo ha fatto egregiamente, in una alchimia totalizzante esteticamente apprezzabile divenuta ora anche vincente.






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