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Non è panchina, è competizione: cosa i calciatori (anche del Napoli) possono imparare dalle grandi aziende

Siamo sicuri che stare in panchina significhi fallimento? Nelle aziende, la competizione interna è la regola. E chi sa attendere e prepararsi, spesso diventa decisivo.


Vincenzo ImperatoreVincenzo ImperatoreAnalista finanziario e giornalista

31/07/2025 09:26 - Altre notizie
Non è panchina, è competizione: cosa i calciatori (anche del Napoli) possono imparare dalle grandi aziende

Dopo la conquista del quarto scudetto e il salto strutturale in Europa, il Napoli si trova oggi nella condizione tipica delle grandi squadre internazionali: una rosa ampia, piena di qualità, dove ogni ruolo ha due o tre interpreti di altissimo livello. È una dimensione nuova per il club, ma soprattutto per molti dei suoi calciatori, che per la prima volta devono confrontarsi con una concorrenza interna quotidiana e non più episodica.


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Nel calcio – e nella narrazione che lo circonda – c’è un riflesso condizionato: se un grande giocatore non gioca titolare, si parla subito di musi lunghi, malumori, richieste di cessione. Ma forse è arrivato il momento di rovesciare la prospettiva. Nelle grandi aziende, la competizione interna tra colleghi è un fatto strutturale. Non due per ruolo, come accade in una squadra di calcio, ma a volte decine – se non centinaia – di manager competono per lo stesso obiettivo: una promozione, un progetto, una responsabilità. Nessuno pretende di “giocare sempre”, ma tutti sanno che devono essere pronti. E preparati.


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I calciatori delle grandi squadre, abituati a essere titolari nelle giovanili, poi in Serie B o in club di seconda fascia, spesso faticano ad accettare che in un top club ci sia una gerarchia mutevole, basata sulla forma, sul momento, sul contesto tattico.

Ma questa dinamica non è un’ingiustizia. È la normalità nelle organizzazioni complesse. In azienda non esiste un “posto fisso” nel senso calcistico: ci si guadagna ogni giorno la fiducia, attraverso performance, spirito di squadra, capacità di gestire anche i momenti di attesa. E si cresce anche osservando, imparando dagli altri, accettando feedback.

Un’azienda ben gestita non si basa sulla somma dei talenti, ma sulla qualità dell’interazione tra le persone. Lo stesso vale per una squadra di calcio: non vince chi ha solo i migliori undici, ma chi ha i migliori ventidue pronti a cooperare, competere e sostenersi.

Il compito dello staff tecnico – esattamente come nelle HR aziendali – è quello di creare un contesto dove la concorrenza interna non generi fratture, ma stimoli. Dove chi non gioca oggi non si senta escluso, ma impegnato a migliorare per esserci domani. Dove il gruppo vinca non nonostante la competizione, ma grazie ad essa.

Nelle multinazionali le carriere non seguono una linea retta, ma si sviluppano attraverso tappe, rotazioni, attese, salti di qualità improvvisi. Chi riesce a trasformare i periodi “di panchina” in tempo per apprendere, osservare e crescere, poi arriva più lontano. Lo stesso vale in campo.

La logica della rotazione – che nel calcio spesso è malvista – nelle imprese, nelle banche un pilastro della formazione manageriale, è vista come un’opportunità di sviluppo. La disponibilità a ricoprire più ruoli, la capacità di adattarsi, la resilienza mentale sono tratti distintivi di ogni high performer.

Il tempo dell’attesa è tempo utile, se vissuto con maturità. È tempo di studio, di miglioramento, di tenuta psicologica. Le grandi aziende lo sanno. 

Il problema, spesso, non è la società. È il calciatore. Quello che non accetta la concorrenza, che interpreta l’attesa come una ferita all’ego, che trasforma la panchina in frustrazione anziché in occasione. Ma la verità è che, nel calcio come in azienda, non si è professionisti solo quando si gioca. Lo si è anche – e forse soprattutto – quando si è chiamati ad aspettare.

In un contesto dove ogni posto è conteso, lamentarsi non è un segnale di ambizione: è un segnale di debolezza. Il vero professionista usa il tempo dell’attesa per prepararsi, migliorarsi, rendersi insostituibile nel momento decisivo. E sa che, se il gruppo vince, anche lui vince.

Perciò, basta con la retorica del muso lungo. È il momento di parlare di cultura, di maturità, di crescita personale. Perché non è chi gioca sempre che fa la differenza, ma chi è pronto quando serve davvero.

E spesso, chi ha saputo attendere è proprio quello che cambia la partita.


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Vincenzo ImperatoreVincenzo Imperatore
Laureato in Economia e Commercio, ha lavorato 22 anni come manager di un istituto di credito. Dal 2012 è un libero professionista, saggista, scrittore e giornalista pubblicista. Collabora con importanti testate.
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