Napoli, governance impeccabile. Ma ora serve un "brand ambassador"
Il Napoli resta un modello di impresa calcistica, ma i casi recenti mostrano che la comunicazione è diventata il suo tallone d'Achille.

Il Napoli è un caso da manuale per chi studia management. Lo racconto da anni: la società guidata da Aurelio De Laurentiis mostra bilanci solidi, processi rigorosi e una capacità rara, nel calcio italiano, di generare utili e mantenere competitività sportiva. Tuttavia, in questa macchina quasi perfetta, esiste un punto debole che rischia di diventare un freno: la comunicazione istituzionale.
Per capire questa fragilità occorre fare un passo indietro. Fino a tre anni fa il modello comunicativo del Napoli era rigidamente centralizzato. Nel libro A scuola da De Laurentiis l’ho definito senza mezzi termini “una comunicazione da Corea del Nord”: un sistema in cui il presidente accentra ogni messaggio, gestisce in prima persona i rapporti con i media, filtra le uscite dei tesserati e si propone come unico canale autorevole. Era un modello criticabile, ma coerente con quell’efficiente modello di business: il carisma e la visibilità del presidente garantivano la tenuta del sistema.
Una metafora estrema ma efficace: centralizzazione totale, controllo rigido dei messaggi, protagonismo assoluto del presidente Aurelio De Laurentiis come unico canale informativo rilevante. Era un sistema che funzionava perché l’uomo-De Laurentiis era al tempo stesso proprietario, leader e megafono. Non c’era bisogno di una struttura organizzativa complessa: il presidente era il media, e attorno a lui ogni voce era filtrata e orchestrata.
Con il passaggio a un nuovo modello di business, caratterizzato da una strutturazione più organica (ruoli e responsabilità) della società, da un approccio differente al rapporto tra rischio e investimenti e da un innalzamento degli obiettivi sia sportivi sia gestionali, De Laurentiis si è progressivamente defilato dal processo comunicativo, lasciando l’organizzazione priva di una figura istituzionale in grado di raccoglierne e sostituirne la voce.
E le crepe sono emerse in più di un’occasione. Il comunicato del giugno scorso, ad esempio, era un atto di governance impeccabile: ribadiva con nettezza che le decisioni sul mercato appartengono al club e non a singoli individui. Tuttavia, il tono assertivo e poco relazionale ha vanificato l’opportunità di costruire un ponte con tifosi e media, trasformando un messaggio di ordine in un segnale di distanza, se non addirittura di indecifrabilità: a chi era davvero rivolto? Ancora più emblematica la vicenda “Decibel Bellini”: la separazione dallo storico speaker (indiscutibile dal punto di vista del turnover necessario per garantire crescita e rinnovamento), seguita da una marcia indietro con la sua riconferma, è stata raccontata più dai media e dalle reazioni dei tifosi che dalla società stessa. Il club non ha imposto una cornice narrativa propria, lasciando che la percezione pubblica fosse modellata da retroscena, interpretazioni e cicli emotivi. Un paradosso: un’organizzazione capace di governare con precisione i numeri più complessi si è rivelata vulnerabile di fronte a un bene immateriale ma potentissimo come il racconto pubblico.
E la comunicazione non è soltanto gestione delle crisi: è anche esperienza diretta di campo, carisma sportivo e naturale familiarità con momenti simbolici come i sorteggi di Champions League. Al di là delle qualità personali del vicepresidente Edo De Laurentiis – la cui crescita sembra il frutto di un percorso di ricambio generazionale accuratamente guidato dal padre-presidente con metodo e gradualità – non sarebbe forse il momento di valutare un brand ambassador capace di incarnare con naturalezza i valori sportivi e identitari del club? Un profilo come quello di Dries Mertens, ad esempio, avrebbe fascino sportivo, credibilità ed empatia sufficienti per proiettare l’immagine del Napoli anche oltre i confini italiani. Basta pensare ai rappresentanti di Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco o Inter nelle stesse occasioni: figure riconoscibili ovunque, al punto che perfino un bambino thailandese li collegherebbe immediatamente alla loro squadra.
La lezione è chiara e va ben oltre il calcio. L’efficienza interna non basta se non è accompagnata da una comunicazione coerente e credibile. È importante distinguere: il marketing del Napoli funziona efficacemente, con campagne di sponsor, accordi commerciali e strategie di brand management capaci di generare valore e visibilità. Ma la comunicazione istituzionale ne rappresenta solo una parte, ed è quella che sostiene la governance e alimenta fiducia e legittimazione. Non basta avere sponsor prestigiosi o iniziative promozionali di successo se poi, sul piano dei messaggi istituzionali, emergono incertezze o ambiguità. La comunicazione non è un accessorio estetico: è l’elemento che garantisce coesione all’interno e credibilità all’esterno: si pensi al caso di Tesla, con Elon Musk come frontman, che ha mostrato quanto sia rischioso confondere il marketing con le dichiarazioni istituzionali.
Quando il leader carismatico (Aurelio De Laurentiis) che fungeva da unico megafono si defila, diventa indispensabile istituzionalizzare questa funzione: definire portavoce, regole, processi, tempi di reazione. In mancanza di ciò, ogni crisi rischia di trasformarsi in una voragine reputazionale
La centralizzazione, come raccontato nel mio libro “A scuola da De Laurentiis”, non significa silenzio: significa selezione dei messaggi, semplicità, chiarezza. Ma quando la centralizzazione si svuota perché il presidente non è più il media quotidiano, quel vuoto va riempito con una struttura. Serve una regia visibile e riconoscibile, che oggi dovrebbe essere impersonata dal direttore generale Bianchini. Non è una questione di carisma individuale, ma di metodo: convocare un comitato di comunicazione, stabilire portavoce e procedure di crisi, allenare i dirigenti al media training, garantire trasparenza e coerenza con KPI chiari da monitorare.
Il Napoli resta un modello di impresa calcistica, ma i casi recenti mostrano che la comunicazione è diventata il suo tallone d’Achille. E in un settore come il calcio, dove la percezione è parte integrante del prodotto, non si può permettere che questo anello debole resti irrisolto. La sfida per i prossimi mesi sarà trasformare la forza della governance economica in una governance comunicativa altrettanto solida.
Non basta decidere bene: bisogna anche saperlo raccontare bene.





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