Consiglio non richiesto (ma sincero) alla efficiente area marketing del Napoli
Esiste un Napoli a doppia velocità. Quello dei volti noti, degli influencer. E poi c'è quello del tifo popolare, quello che rappresenta la stragrande maggioranza del Maradona.

Lo dico con rispetto, persino con un filo di affetto professionale: l’area marketing del Napoli ha mostrato, in questi anni, efficienza, creatività e capacità di adattamento al mondo dei social, degli eventi e delle nuove forme di engagement. Nulla da eccepire. Anzi, chi lavora in comunicazione sa bene quanto sia difficile far convivere tradizione, business e linguaggio contemporaneo in un contesto passionale e stratificato come quello partenopeo.
Ma proprio per questo, da chi ha dimostrato di saperci fare, ci si aspetta uno scatto in più. Un salto di qualità. Perché le caption, i video emozionali, le frasi ad effetto sui manifesti vanno bene — finché non restano solo parole. Il problema è sotto gli occhi di tutti, anche dei più “vicini” (come chi scrive, che in più di un’occasione ha avuto accesso a ingressi facilitati e aree privilegiate): esiste un Napoli a doppia velocità. C’è il Napoli dei volti noti, degli influencer, dei “sempre presenti” agli eventi ufficiali, cui vengono riservati posti migliori, accessi più semplici e, talvolta, una rappresentazione mediatica a dir poco generosa.
E poi c’è il Napoli del tifo popolare, quello che rappresenta la stragrande maggioranza del Maradona, che deve fare code interminabili, rincorrere biglietti sempre più difficili, accontentarsi di settori meno agiati — sempre che riesca a entrarci. E ci sono anche milioni di tifosi “glocal”, sparsi tra provincia e mondo, che vivono ogni partita seduti su un divano, con una radio o una TV, ma con un’intensità che nulla ha da invidiare a chi è allo stadio.
Queste dinamiche si fanno ancora più evidenti nei ritiri pre-campionato, quando il club si avvicina simbolicamente ai suoi tifosi, ma nei fatti finisce spesso per allontanarsene. Le aree riservate, gli eventi a invito (con i soliti seduti sempre nelle prime file), gli incontri con i calciatori filtrati da un servizio sicurezza arrogante, le foto per i canali ufficiali che ritraggono sempre gli stessi volti — tutto questo genera una sensazione di esclusione per chi si sobbarca ore di viaggio, alberghi costosi, ferie programmate per vivere una giornata con il Napoli. E si ritrova, magari, dietro una transenna, mentre altri fanno colazione con il mister.
Basterebbe guardare la semplice mappa dello stadio per capire dove risiede il cuore del tifo e dove invece si concentra l’attenzione comunicativa: la sproporzione tra i posti VIP e quelli destinati alla gente comune è abissale, ma è proprio quest’ultima che tiene vivo il tempio azzurro. Così come lo tengono vivo tutti quei tifosi lontani, silenziosi, mai inquadrati dalle telecamere, ma fedeli e presenti in ogni angolo del pianeta.
Altrove, chi lavora bene sul legame col proprio pubblico lo dimostra con coerenza. Il Liverpool, ad esempio, non si limita a evocare “You’ll Never Walk Alone” come slogan: costruisce campagne attorno ai volti e alle storie dei suoi tifosi, mette Anfield e i suoi cori al centro della propria identità visiva e sonora. Il cuore caldo della Kop viene trattato come un asset narrativo, non come semplice sfondo. E questo rafforza il senso di appartenenza anche nei tifosi più lontani.
E allora, ecco il mio consiglio non richiesto: il Napoli ha la possibilità di costruire una narrazione che parta davvero dal basso. Che trasformi il tifoso popolare nel protagonista della propria campagna di comunicazione. Che dia concretezza agli slogan. Non basta scrivere “T’appartene” se poi il popolo è fuori dalle foto delle cene o feste ufficiali.
Servono gesti veri. Agevolazioni fedeltà. Campagne con volti autentici. Premi per chi ha seguito la squadra anche a Cittadella, non solo a Parigi. Un progetto editoriale che racconti le storie di chi ha tatuato il Napoli sulla pelle, non solo quelle di chi lo indossa per una collaborazione. E che coinvolga anche i tifosi lontani, quelli che vivono il Napoli in ogni angolo del mondo, magari svegliandosi alle 3 di notte per vedere la partita.
È una questione di coerenza, di rispetto e anche di visione strategica. Perché nel lungo periodo, è il popolo che resta. I follower possono cambiare squadra, algoritmo, moda. Il popolo, no.
E allora, care e cari del marketing azzurro, fateci questo regalo: fate del Napoli un esempio. Non solo per come gioca, ma per come sa raccontarsi. A chi lo ama da sempre, senza badge.





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