Sacchi: "Un Maradona ogni 50 anni, il Napoli di Conte e il mio idolo da bambino"
Arrigo Sacchi, tecnico che ha scritto pagine di calcio memorabili, ha rilasciato un'intervista a Libero Quotidiano.

Arrigo Sacchi, ex allenatore del Milan e della nazionale italiana, ha rilasciato una lunga intervista a Leonardo Iannacci per Libero Quotidiano. Ecco alcuni passaggi: "Non è mai stata una questione di durezza la mia ma di lettura corretta di quello che vedevo. Il calcio, in Italia, vive contraddizioni storiche. Oggi le cose sembrano andare leggermente meglio. Guardate l’Atalanta, sta facendo un calcio grandioso rifuggendo furbizie e individualismi. La marcatura a uomo, con tanto di libero staccato, è figlia di un pressing da terzo millennio”.
Un esempio di furbizie: "Partiamo dai primi anni quando i padri fondatori inglesi portarono il calcio in Italia: non ci dissero che è uno sport individuale. Il concetto di catenaccio non lo insegnarono loro, lo facemmo nostro. L’Italia ha vinto con merito quattro mondiali e tante coppe europee con i club. Ma il calcio, e per decenni, non è stato visto come uno sport di squadra nel quale si deve offendere tutti insieme bensì come una disciplina individuale dove ci si deve soprattutto difendere".
Un esempio per attualizzare il concetto?
“Ho l’impressione che Motta, che è un allenatore molto bravo, nella Juve fatichi a estirpare il concetto secondo cui vincere non è importante ma è l'unica cosa che conta. Motta se la deve vedere con 50 anni di tradizione diversa dalle sue idee”.
Il Napoli di Conte?
“Vive attraverso la ricerca del perfezionismo di Antonio”.
E l’ottimismo della ragione di cui mi parlava all’inizio da dove le deriva?
“Da segnali importanti. Ho visto alcune partite della Lazio e sono rimasto colpito e affascinato dal calcio di Baroni, espressivo e mai individualista”.
Vuole dire che il calcio italiano reduce da due mondiale saltati si sta davvero risvegliando?
“In parte sì. Si costruisce sempre con delle idee. Ora ne vedo qualcuna in giro: il Lecce ne sta proponendo di interessanti. Anche l’Empoli. Lo stesso Bologna post-Motta”.
Quando nacque in lei, allenando, l’idea di evitare certe furbizie?
“Ero piccolo, a 8 anni vidi giocare la grande Ungheria ai mondiali del 1954 e rimasi affascinato da come proponeva il calcio quella squadra meravigliosa. Poi l’Ajax di Cruijff ha dato un impulso incredibile al calcio totale dove tutti appartenevano a tutti”.
Il calciatore che la fece sognare quando era ragazzo, a Fusignano?
“Puskas. Molti anni dopo andai ad allenare il Real e Alfredo Di Stefano, che aveva giocato con Puskas, mi disse: Ferenc era unico, a 40 metri dalla porta era più pericoloso di quando si trovava a sei-sette metri”.
Nei tempi moderni?
“Maradona, un giocatore al quale era permesso di essere egoriferito. Ma di Diego ne nasce uno ogni 50 anni”.
Spalletti non ha dei Maradona e per la nazionale deve scegliere fra pochi giocatori affidabili, per usare un suo termine, no?
“Anche perché non può utilizzare giocatori che, in campionato, giocano un calcio diverso dal suo”.
Sacchi, coltiva rimpianti nella sua carriera?
“No. Solo il dispiacere di veder valutati come non positivi risultati eccelsi”.
Per esempio?
“Il secondo posto a Usa ’94, dopo la finale persa ai rigori contro il Brasile”.
Gli azzurri arrivarono esausti, vero?
“Esatto e per un errore politico. Un anno prima aveva chiesto al presidente Matarrese di fare in modo di non giocare la fase iniziale a New York, dove a luglio ci sono 40 gradi e un’umidità del 100%. Non ci fu consentito. Andammo avanti in quel mondiale ma i ragazzi arrivammo a Pasadena lessati”.
Non vi perdonarono un secondo posto significativo.
“Nel paese del furbetti e del risultato ad ogni costo, figurammo come primi dei perdenti. E questo è un peccato non veniale”.
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